IL SALARIO DELLA PAURA (1977), di William Friedkin

È cominciata la 12esima edizione del Lucca Film Festival. E se c’è una caratteristica di questo festival che è unica sua, oltre al fatto di essere una retrospettiva sempre magica e ricca sui grandi autori del passato e del presente (ricordiamo, tra gli autori principali delle scorse due edizioni: Lynch, Cronenberg, Bressane, Boorman, Gilliam) e alla ricchezza delle proiezioni di corti e lunghi sperimentali, è la sua enorme autoreferenzialità. Ad ogni edizione, è sempre divertente e nel contempo sorprendente notare come il direttore Nicola Borrelli, insieme ad altri soliti noti come rappresentanti del municipio lucchese o della Cassa di Risparmio di Lucca, prima di parlare di cinema o dei grandi ospiti che riesce a portare sui palchi della piccola ma meravigliosa cittadina toscana che c’ha regalato Puccini, parli per minuti (o meglio per mezz’ore) di quanto il festival è cresciuto, di quanto ancora crescerà, di quanto è importante il supporto delle banche e di quanto siamo importanti noi spettatori. È divertente, più che altro, perché è vero che senza il supporto economico ottenuto dai festival del cinema da una parte o dall’altra questi non esisterebbero e che quindi dobbiamo essere grati, ma la parlantina di Borrelli e compagnia, a volte simpatica e a volte eccessiva, ricorda quella dei video di ringraziamento giovanili degli youtuber, che più di ogni altra categoria di “artisti” dell’epoca digitale tendono a sospendere la propria attività mediatica regolare a volte solo e soltanto per enumerare iscritti e visualizzazioni con annessi ringraziamenti.

Quando William Friedkin è salito sul palco per ricevere un triplo premio alla carriera (il premio ufficiale, un’opera di un artista russo residente a Lucca, più due regali: una bottiglia di champagne e una collezione di tutte le opere di Puccini in vinile), ha presentato nel contempo un’espansiva simpatia e una notevole, ma divertita, irritazione verso la sequela di discorsi fatti per incensare lui, o per incensare Puccini, o per incensare la Cassa di Risparmio di Lucca. Prima di abbandonare il palco, ha espresso un ultimo veloce elogio all’operista toscano (del quale diresse in un’occasione la Suor Angelica) e ha detto al pubblico di essere felice di essere in una città come Lucca, una città che sussurra a differenza di Roma, che urla, e di essere felice che il festival sarebbe cominciato con una proiezione restaurata di Il salario della paura, il film di cui va più fiero. Questo film è stato tratto dal romanzo Le salaire de la peur (1950) di Georges Arnaud dal quale era già stato tratto il capolavoro di Henri-Georges Clouzot Vite Vendute (1953); ma Friedkin è riluttante a considerare il proprio film un remake, da una parte perché Arnaud gli ha ceduto volentieri i diritti per questo secondo adattamento cinematografico (era rimasto deluso dalla versione di Clouzot) e dall’altra perché il suo film prende una direzione decisamente diversa dal film francese. Nonostante ciò, appena iniziati i titoli di coda vi è una dedica all’autore europeo. Il film di Friedkin peraltro è uno dei più importanti flop al botteghino della storia di Hollywood: uscito nel 1977, nello stesso periodo in cui uscì il primo Guerre stellari (quello ora noto come Una nuova speranza, l’unico della trilogia originale ad essere stato diretto da Lucas), fu il primo esempio del decadimento della New Hollywood di fronte al crescente mercato dei blockbuster, ancora prima di quello de I cancelli del cielo (1980) di Michael Cimino.

Sorcerer (questo il titolo originale del film, da una scritta su una delle due macchine al centro dell’intreccio) parte da una trama semplice, ma l’approfondimento dell’ingranaggio narrativo lo rende un film ben più complicato di quello di Clouzot, anche se meno importante per la storia del Cinema per ovvie ragioni storiche: quattro individui provenienti da contesti violenti e passati burrascosi in varie parti del mondo si trovano, esiliati per ragioni diverse, in una città sperduta del Sud America, e la loro unica speranza di fuga consiste nei soldi che potrebbero guadagnare portando in macchina della nitroglicerina attraverso tutta la giungla per far esplodere un pozzo petrolifero statunitense di recente reso inutilizzabile da un attacco terroristico. La missione è pericolosa, ogni minima turbolenza può causare tragiche conseguenze, e per questo si offrono volontari quattro uomini che non hanno davvero niente da perdere: un gangster newyorchese (interpretato da Roy Scheider) che scappa dalla mafia, un banchiere francese (Bruno Cremer) scappato dalla moglie di cui era innamoratissimo perché ricercato per truffe compiute insieme ad un uomo che si è suicidato, un ebreo ispanico (Francisco Rabal) che va alla ricerca di nazisti in Sud America da assassinare e un terrorista arabo antisionista (Amidou) scappato da Israele dopo aver fatto saltare in aria un edificio a Gerusalemme.

Il film inizia come tanti altri di Friedkin: con il puro, disorientante caos. Ma è probabilmente il più confusionario e assurdo dei suoi incipit in medias res, con una serie di volti e situazioni che si incastrano in una messinscena realistica che a volte dà allo spettatore l’impressione di assistere ad una sorta di documentario sulla natura caotica dell’animo umano, sulla disperazione programmatica che affligge ogni individuo a prescindere dal contesto o dall’estrazione sociale. E questo caos fatto di montaggi alternati, esplosioni, macchina da presa a mano, inquadrature sporadiche di piccoli particolari, animali e primi piani di volti di passanti, con approfondimenti caratteriali comunicati praticamente solo per immagini e non verbalmente, crea davvero un’immagine collettiva che pare una testimonianza torrida, schizofrenica e tesissima con un approccio a volte apparentemente giornalistico e documentaristico come quello dei migliori film di finzione dell’Herzog di un tempo (si pensa ad Aguirre, furore di Dio (1972) o a Fitzcarraldo (1982), soprattutto nella scena in cui l’esercito restituisce ai paesani i cadaveri abbrustoliti degli operai deceduti nell’attacco terroristico al pozzo petrolifero). È un film senza dubbio impressionista, che dimostra la propria posizione politica anti-colonialista solo con l’emotività di immagini potentissime, sudaticce e angoscianti, che trasformano il crescendo di tensione prima dell’inizio della missione (quasi un’ora di film) in un vero viaggio infernale. Il montaggio serrato e ansiogeno della parte più “d’azione” – anch’essa basata quasi completamente sulla comunicazione per gesti e per immagini e non per parole – crea una suspence forse mai raggiunta nella storia del cinema d’avventura, con alcuni tocchi di genio soprattutto nell’uso del sonoro e nella ripetizione ossessiva delle inquadrature.

Questo viaggio mortifero nei meandri di una geografia terrena, che è un po’ manifestazione fisica dell’angoscia, ha il suo apice verso la conclusione, quando il viaggio sta per terminare ed in mezzo ad una parte particolarmente deserta dell’avventura, Roy Scheider, ormai solo, ha delle visioni di passato e presente che gli s’imprimono sul volto mentre lui lentamente perde il senno: con un gioco di campi e controcampi, sovrimpressioni e analessi, si ha davvero l’idea di un controcampo terreno dell’allucinazione di Giove di 2001: Odissea nello Spazio (1968): mentre lì Dave (Keir Dullea) tornava alle origini dell’uomo attraverso un viaggio mistico, un incontro divino, qui Roy Scheider compie lo stesso processo ma a livello terreno, marcendo nel proprio sudore, nella sabbia e in balìa degli elementi, mentre sul suo volto si materializza l’universo circostante, l’angoscia e nel contempo anche il passato, quindi un (suo) ritorno alle origini, non a quelle dell’uomo ma a quelle di sé stesso, alle origini del perché lui si trova lì in quella situazione pericolosa e paradossale. Già dai primi piani del suo volto mischiati con le rocce viola tramonto del deserto si può percepire il processo mentale che poi giunge al proprio compimento nel primissimo piano del suo sguardo spento nella scena conclusiva, ovvero il suo giungere alla consapevolezza della completa futilità delle proprie azioni; poco prima della disperazione, o della morte, cioè dell’annullamento di quello sforzo disperato che è costato così tanto sudore, così tanta fatica, così tanto sangue per due estenuanti e tesissime ore di film, dall’inizio documentaristico all’azione, fino al montaggio kubrickiano e al finale poetico, in cui tra le note di un pacato ballo si perde tutto, si annulla tutto, scompare tutto, come è giusto che sia nel caos primordiale del nostro osceno e insensato essere.

Nicola Settis