L’apologia della semplicità. Rohmer va a blocchi. I suoi film sono schegge di vita, che funzionano come pars pro toto: i suoi protagonisti, molto spesso soli e messi alla prova, ci ricordano noi stessi e in qualche modo valgono per l’umanità intera, anche se in questo caso è declinata nella sua variante parigina. Considerando un’uguaglianza di fondo della specie che ne rende ogni membro “settato” sui medesimi bisogni, sono quelli semplici e più puri a interessare Rohmer, i piccoli bivi di fronte ai quali siamo chiamati a scegliere, le piccole lotte di tutti i giorni, che rispondono in realtà a due più grandi: quella per trovare calore umano che ci scaldi l’anima e quella, in realtà più correlata alla prima di quanto l’individualismo odierno non creda, di trovare il proprio posto nel mondo. Un cantuccio, niente di esagerato. I suoi racconti sono universali perché, perdendoci in essi, riapriamo quello scrigno seppellito in noi, in cui siamo tutti, ancora e sempre, giovani un po’ persi, alla perenne ricerca di qualcosa. Difficilmente troveremo battaglie metafisiche nelle sue opere, ed è forse proprio questo che permette quel tono di realismo quotidiano e di minimalismo che è la sua cifra distintiva. Non è infatti necessaria una regia partecipe e romantica: le situazioni, sempre leggiadre, semplicemente accadono, e il regista si limita a mostrarle con tono distaccato e non patetico. E tanto è il materiale umano, che questo sguardo delicato (mai triste!), non può che estendersi attraverso cicli di film (la maggior parte organizzati in tre: Six contes moraux-1962/1972, Comédies et proverbes-1980/1987, Contes des quatre saisons-1989/1998). Partendo da un medesimo spunto tendenzialmente popolare, dai racconti, dai proverbi, dall’alternarsi delle stagioni terrene, i pacchetti che ci consegna il regista sono panoramiche su singole vite diverse, in qualche modo legate da un filo rosso. Tramite un processo deduttivo, traiamo considerazioni sui sentimenti dell’umanità in toto. Ma forse non è opportuno parlare di considerazioni, perché in effetti non pensiamo. Per quanto i suoi film siano fondati su situazioni, nuove conoscenze e fiumi interminabili di parole, Rohmer lascia in pace il cervello. Piuttosto, ci immerge con garbo. Tocca corpo e anima, basta. Educa il sentimento con lo sguardo e la sensibilità, approdando a un cinema di totale sottrazione in cui non “succede” praticamente nulla, ma succede tutto, perché esplode la verità emotiva.
Quinto del ciclo “Commedie e Proverbi”, Il raggio verde si aggiudica il Leone d’Oro al Festival di Venezia nel 1986. In apertura ci viene proposto un verso di Rimbaud tratto dalla Chanson de la plus haute tour (1872): «Ah! Que le temps vienne – où le coeurs s’éprennent»(“Ah! Venga il tempo – in cui i cuori s’infiammano”). La pigra giovinezza, cantata dal poeta simbolista, è proprio quella che ritroviamo nella nostra protagonista, Delphine, improvvisamente costretta a fare i conti con la sua solitudine nel momento in cui la sua compagna di viaggio, per un nuovo flirt, annulla i programmi estivi dando il La alle solitudinarie peregrinazioni, mentali e fisiche, del personaggio. Seguiremo così la parigina dal 2 luglio al 4 agosto, prima nella scelta incredibilmente patita di come impegnare il mese, e poi nella messa in pratica, altrettanto sofferta, delle decisioni prese. Un periodo, quello delle ferie estive, fra i prediletti dal regista, oltretutto in questo caso scansionato in maniera diaristica, come il precedente Il ginocchio di Claire. L’oisiveté, quella inattività che apre la “Chanson”, e la complementare délicatesse, caratteristica della fase acerba della vita, racchiudono in sé l’essenza di Delphine. Come la protagonista de Il raggio verde di Jules Verne, da cui il titolo, descritta come «un’eroina di una semplicità disarmante, una ragazza semplice come Cenerentola o Biancaneve», così lei. Ma a caratterizzare la protagonista della pellicola c’è una forza sotterranea in più, la forza degli opposti. La giovane è dilaniata da tensioni di fondo che potremmo riassumere in due: quella verso la vita e quella verso il contrario di vita, con cui non è da intendere morte, quanto l’immobilismo, contro il quale è costantemente spronata a combattere da amici e parenti. Percepisce la frustrazione della solitudine, acuita da un senso di diversità e di non adattabilità sociale, che è poi quello che la rende deliziosa e irresistibile ai nostri occhi, e fino all’ultimo non sembra riuscire a conciliare la sua sete di esistere, di amare ed essere amata con la paura di un mondo a lei distante ed estraneo. Tutto sembra più facile per gli altri, e questa dicotomia si incarna nell’essenza stessa del personaggio, che racchiude in sé i quattro elementi opposti. L’Acqua, perché il suo nome ne è emblema. L’Aria, perché siamo ciò che mangiamo e la sua alimentazione vegetariana è dichiaratamente «aéré», una costante ricerca dell’etereo. La Terra, perché, come viene sottolineato è un Capricorno: «simbolo della capretta che si inerpica su per la montagna, e va più in alto che può, ma generalmente ci va da sola» (di nuovo ricordandoci l’Auguste retraite, l’augusto eremitaggio cantato da Rimbaud). Ultimo, ma non per importanza, il Fuoco, perché la storia di Delphine, almeno fino a dove la seguiamo noi, trova infine un nuovo senso con la vista del raggio verde.
È questo un fenomeno ottico dovuto alla rifrazione solare e alla dispersione dei colori, che rende visibile, nel momento in cui il sole si adagia dietro l’orizzonte, un bagliore verde chiaro «come la lama di una sciabola» che si distacca orizzontalmente. Il fulcro del primo capitolo del film successivo, Renette e Mirabelle (1987), commedia slegata dai cicli, sarà invece «l’ora blu», il momento prima dell’alba, apprezzato dalla protagonista campagnola per il silenzio assoluto che lo caratterizzerebbe, a cavallo tra l’addormentamento degli animali notturni e il risveglio dei diurni. Il titolo rohmeriano si appoggia non solo sulla affascinante manifestazione naturale dell’ultimo pezzetto di sole, ma sul rimaneggiamento culturale che Jules Verne ne ha fatto, con l’omonimo romanzo del 1882. Secondo lo scrittore, quando una persona vede il raggio verde, quella persona è capace di leggere nei propri sentimenti e nei sentimenti degli altri, «tanto che si può diventare incredibilmente lucidi», come succede all’eroina del romanzo, la quale non vedrà mai il raggio verde «ma che arriva a leggere molto bene nei suoi sentimenti e in quelli del giovanotto che ha incontrato». È dunque nella seconda metà del film, origliando insieme alla protagonista la conversazione di un gruppo di anziani appassionati di lettura, che veniamo a conoscenza del racconto, riuscendo a collocare Delphine tra la schiera dei personaggi verniani, quei «personnages qui cerchent quelque chose». La ricerca del raggio, che diventa consapevole e concreta solo nell’ultimissima parte ma che in realtà dà senso retroattivamente a tutto il viaggio, è un’attesa pacata, una ricerca di purezza che conferma il modus vivendi della protagonista: «meglio vivere aspettando un ideale che adattarsi a una mediocre realtà». Se il film non fosse costellato di segni, non daremmo così importanza alla leggenda. Ma già dall’inizio Delphine incappa in coincidenze bizzarre, fra le carte da gioco per terra (prima una donna di picche verde poi un fante di cuori) e le predizioni su come il colore del suo anno sarà il verde. I suoi imbattersi nel potenziale simbolo sono oltretutto gli unici momenti che si appoggiano su un tappeto sonoro, quello del violino, in un film la cui colonna sonora sono le voci della natura, della città e dei personaggi. È poi lei stessa ad affermare «moi je crois a des superstitions personnelles», e dunque non facciamo alcuna fatica a credere che la vista del raggio verde sarà davvero un punto di svolta.
La struttura del film, come abbiamo detto scandito in giornate quasi fosse un diario, è quasi un emblema rohmeriano: articolata in incontri diversi, tra amici, amiche, conoscenti e incontri occasionali nelle spiagge, ognuno dei quali metterà Delphine alla prova, ponendola di fronte alla sua irrequietezza e al suo senso di mancanza. Protagonisti insieme a lei sono i luoghi della sua flânerie: Rohmer ci presenta Delphine a Parigi nel suo ufficio da segretaria prima ancora che tra le strade della città, ci guida tra le sterpaglie del paesino normanno di Cherbourg, ci accompagna in una montagna estiva e sciolta, per poi farci approdare nel mare caotico di Biarritz. L’atmosfera è sospesa ed evanescente, complici l’utilizzo della 16 mm, la recitazione spontanea e quotidiana degli attori (Marie Riviére è oltretutto co-sceneggiatrice), una fotografia che sbiadisce i vivaci colori del profilmico, una regia che risente ovviamente dell’influenza della Nouvelle Vague, e, soprattutto nei dialoghi, dello stile documentaristico del Cinema verité. Tutto contribuisce a far sedimentare nello spettatore un film soffice e fresco come una nuvola. Quello in questione è un viaggio di formazione del tutto particolare. A differenza di come accade in molti road movies (consideriamo per un attimo l’idea di inserirlo tra queste fila, un road movie puramente rohmeriano e dalle mete incerte e sballottate), alla commutatio loci non corrisponde una vera e propria trasformazione, una “formazione”, nonostante la protagonista sia costantemente spronata ad un cambiamento che la renda, in parole povere, più intraprendente e aperta agli altri. Delphine rimane fedele a se stessa, questo è ciò che la rende pura. È solo il bagliore di un cambiamento, veloce ed etereo come il raggio verde, quello che avviene. Infatti, potremmo forse meglio parlare di “avvenimento” più che di metamorfosi. L’ultimo incontro, mentre scoraggiata attende in stazione l’arrivo del treno che la riporterà in città, mettendo la parola fine alla vacanza e sancendo il fallimento delle sue aspettative, è quello con un giovane apprendista ebanista dall’aria pulita e cordiale, che pare subito invaghito di lei. Delphine, ancora una volta non tradendo il suo cuore, attenderà con lui su un’altura la vista del raggio verde, lasciando scegliere all’atmosfera, o in questo caso al destino, che cosa ne sarà di loro due. Trepidiamo con lei mentre il sole si tuffa dietro l’orizzonte, teniamo il fiato sospeso e le mani giunte e gioiamo infine, sinceri, quando una striscia criptonite appare in lontananza, per un secondo, prima di essere inghiottita da un mare piattissimo. Delphine non è cambiata, forse tornerà a breve a Parigi, forse continuerà la sua semplice vita da impiegata di prima, forse con un nuovo amore al suo fianco, che speriamo e intuiamo possa riempire i suoi vuoti. Non sappiamo cosa succederà, ma il pianto di gioia e quell’energico «Oui», urlato indicando avanti, ci dice che il viaggio in realtà è appena cominciato e forse la bambina che è in lei inizierà a fare pace con il mondo e ad aprire, con meno paura, quello scrigno seppellito. Ci auguriamo però che la sua irrequietudine non cessi mai. Rohmer, senza che quasi nulla accada e con quell’idea di eco moderna, se non propriamente zavattiniana, di seguire il girovagare del personaggio anche nei momenti (solo) apparentemente meno significativi, ci mette di fronte a noi stessi e alle nostre insicurezze, e lo fa con semplicità assoluta: mostrandoci la noiosa estate francese di una donna un po’ malinconica. Quando vediamo i suoi film ci sentiamo meno soli e capiamo che la genuinità è poesia. Per questo non riusciamo a smettere di amarlo.
Bianca Montanaro