In occasione dell’assegnazione del Leopard Club Award ad Adrien Brody, al settantesimo Locarno Festival è stato presentata una straordinaria copia in 35 mm de Il Pianista, un film che ha veramente bisogno di poche presentazioni, il cui valore è stato riconosciuto già con una Palma d’Oro e ben tre premi Oscar, alla regia, all’attore protagonista per Brody e alla sceneggiatura non originale.
Il film è basato sull’omonima autobiografia di Władysław Szpilman, un pianista ebreo polacco riuscito a salvarsi dalle persecuzioni antisemitiche durante l’occupazione tedesca della Polonia. Nella parte iniziale del film, nell’aria aleggiano tanto l’oscuro spettro del nazismo quanto la speranza, destinata a rivelarsi vana, che gli Alleati riescano a concludere in fretta la guerra. Quando Varsavia viene occupata, il protagonista e la sua famiglia cominciano presto a sperimentare il vero significato del nazismo, passando dall’obbligo di indossare la fasce identificative sul braccio, al non poter più lavorare, fino a che non cominciano ad essere trattati come vero e proprio bestiame, chiusi in prigioni a cielo aperto per poi essere deportati verso i campi di concentramento. Szpilman è l’unico della sua famiglia a riuscire a sfuggire ad essi, in quanto gli viene salvata la vita da un membro della polizia ebrea dei ghetti che si ricordava di lui, e inizia qui la sua lotta per la sopravvivenza. In questa Odissea, in cui sembra quasi che sia la musica ad essere la patria perduta verso cui ritornare, il protagonista assiste a esecuzioni a sangue freddo, viene costretto ai lavori forzati, vede il fallimento di una rivolta, e si ritrova costantemente a fuggire a nascondersi come un topo, soffrendo sia la fame la malattia. Nessuna violenza a cui assiste il protagonista viene negata allo sguardo dello spettatore: i proiettili uccidono gli innocenti trapassando loro la fronte senza nessun tentativo di mascheramento, senza nessuno stacco di montaggio; e anche quando l’atrocità è stata compiuta, Szpilman si trova a vagare tra le rovine di una città completamente devastata, camminando in mezzo a distese di cadaveri, e addirittura in un’occasione dovendosi fingere uno di loro per non farsi trovare dai nazisti. Egli riesce a sopravvivere solamente grazie alla solidarietà di altri compagni di sventura, e anche grazie all’aiuto di un tedesco che, dopo aver trovato il suo nascondiglio durante le fasi finali della guerra, quando ormai la sconfitta della Germania è imminente, si lascia commuovere dalla musica di Szpilman, e comincia a portargli da mangiare, per poi infine regalargli il suo cappotto.
La vicenda di Szpilman ha molto in comune con quella di Polański stesso: anch’egli di origine ebrea e polacca, aveva solo sei anni quando la sua famiglia venne deportata nei campi di concentramento. Adrien Brody, presente alla proiezione, ha ricordato quando il regista lo portò nell’ultimo luogo in cui vide suo padre mentre stava venendo deportato a Mathausen, quando, per salvargli la vita, gli ordinò di andarsene via; mentre la madre fu uccisa ad Auschwitz, Roman trascorse i successivi sei anni della sua vita in fuga dalle persecuzioni, sopravvivendo anche grazie all’aiuto di famiglie cattoliche polacche, e si ricongiunse col padre solo dopo la fine della guerra. Szpilman diventa quindi pure un riflesso di Polański: sono dei sopravvissuti, ma non degli eroi, in quanto salvatisi solo grazie alla misericordia altrui, e il film, nelle parti finali, sembra essere permeato da una sorta di senso di colpa in merito a questa “fortuna”.
Il protagonista si ritrova ad essere solo uno spettatore impotente davanti all’occupazione nazista, fatta di odio viscerale, esecuzioni a sangue freddo e condizioni di vita disumane, al quale egli assiste spesso dall’alto, attraverso una finestra, che va ad assomigliare moltissimo a uno schermo cinematografico. Il cinema non può intervenire nella tragedia, l’unica cosa che può fare è riprenderla in tutta la sua crudeltà, ed essendo questa la sua unica possibilità diventa anche la sua missione. Però l’arte non può esprimere la propria vocazione nel corso della tragedia stessa: fin dai primi istanti del film i bombardamenti sovrastano e poi interrompono la musica che Szpilman sta suonando alla radio. Negli anni in cui si trova in perenne fuga dalle autorità, sarà sempre costretto a vivere nel silenzio, e anche trovandosi di nuovo davanti a un pianoforte e al bisogno di ritrovare della bellezza in quell’inferno, si mette a suonare per finta, senza che le dita tocchino i tasti, eppure nella sua testa la musica risuona ugualmente. Solo dopo la fine della guerra la musica può tornare in tutta la maestosità del concerto finale ma nessuna parola è in grado di commentare ciò che è accaduto.
Quello dell’Olocausto è sicuramente un soggetto tanto esplorato nel cinema quanto in realtà complessissimo da gestire: non si è trattato di un’atrocità unica ed estemporanea, bensì il risultato di un contesto, un evento limite della storia dell’umanità, la dimostrazione di quanto le circostanze e le sovrastrutture statali siano in grado di concretizzare tutte le potenzialità più negative dell’essere umano. Polański compie il suo percorso attraverso questo spinosissimo tema con un’intelligenza e un sentimento straordinari, mediante un’incredibile fotografia contrastata e plastica, una gestione del comparto sonoro, che alterna musica sublime al clangore della guerra, e una regia che alterna cruda solennità nella violenza e profonda umanità, senza mai lasciarsi tentare da facili sentimentalismi. Alle lacrime della più banale cinematografia sull’Olocausto, Polański oppone una potenza emotiva incredibile, che lascia lo spettatore tanto inorridito quanto tragicamente rassegnato agli abissi più oscuri della Storia. La potenza del film è innegabile, trasversale rispetto a qualsiasi tipo di pubblico, tanto immediata da essere quasi impossibile da immagazzinare a livello verbale: Il Pianista è semplicemente un film necessario.
Tommaso Martelli