Si staglia dai colli bolognesi, il Monte delle Formiche. Si alza verso il metafisico, l’inafferrabile, l’inspiegabile di un evento che, da secoli, si verifica sempre nello stesso giorno e sempre nello stesso luogo. L’8 settembre – sempre l’8 settembre, solo l’8 settembre – il cielo sopra la Val di Zena si adombra di intere nuvole di formiche alate, pronte ad accoppiarsi in volo prima che i maschi, esausti per il loro ultimo sacrificio per perpetrare la specie dopo un’intera vita di lavoro e collaborazione, cadano senza vita sul selciato della chiesa. Il loro è un arrivo spettacolare, un evento atteso da un’intera comunità, un qualcosa di difficile da credere, e ancor più difficile da documentare. L’arrivo delle formiche alate è un fatto per il quale di certo non mancano le spiegazioni scientifiche, ma non sono quelle il territorio di ricerca de Il Monte delle Formiche, interessante e ambiziosissimo lungometraggio d’esordio di Riccardo Palladino presentato a Locarno in Cineasti del Presente. Anzi, non sono proprio le formiche il punto del film: il campo semantico nel quale si muove il giovane filmmaker ternano non è entomologico, ma rigorosamente antropologico e filosofico, tanto che, fino agli ultimi dieci minuti, gli insetti alati non si vedono, e nemmeno si sa se davvero si presenteranno nel cielo. È la loro attesa da parte degli uomini e delle donne che abitano la valle ciò che interessa a Palladino, è il legame di questi esseri umani con il territorio che abitano e con la sua unicità quasi inevitabilmente mistica, è il loro convivere con un fenomeno scientifico del quale già scriveva nel 1770, fra lo stupore di chi vede arrivare una spettacolare nube di insetti e la Fede che non poteva che fargli considerare le formiche esanimi sull’altare come l’atto definitivo di devozione a Dio, lo scrittore tedesco Johann Jacob Volkmann. C’è chi tramanda la tradizione ai bambini, c’è chi gestisce una sorta di museo di fossili, c’è chi si offre volontario per portare a spalla l’altare fino al vecchio Santuario, luogo del miracolo (della Natura). Palladino mostra una comunità in un polittico di volti e colori, da cui si interroga apertamente sul senso della vita, sulla società, sulla collaborazione, sull’individualismo e sull’immortalità con le immagini, con le parole cercate e accuratamente selezionate in biblioteca come a creare un dialogo fra saggi, e con un lavoro certosino sul suono, pronto a trasudare fascino misterico in un silenzio che non è mai assoluto, ma si lascia musicare dall’intreccio del soffiare del vento con i versi degli animali, delle campane (suonate all’antica, con la danza fra le corde dei campanari) con le foglie che cadono, delle spighe di grano con le grida dei bambini, dei suoni della natura con i giusti tappeti musicali.
Palladino filma il piccolo, il quasi invisibile, per giungere al grande. Perché le formiche sono uno specchio dell’uomo, o forse un suo completamento. In ogni cellula umana c’è la storia dell’evoluzione, e nella società delle formiche sta quello che nella società dell’uomo sempre di più inizia a mancare: l’uguaglianza, l’altruismo, lo spirito di sacrificio per il bene comune. Del resto anche l’uomo, come le formiche, è un puntino nell’universo e nella Storia, è la porzione di una porzione nel rutilare di eventi ben più grandi. Analizzando e confrontando i due mondi attraverso le parole di chi, prima di Palladino, aveva già preso in considerazione questa specularità fra uomo e formica (non solo il già citato Volkmann, ma anche Maeterlinck, Tobler, Braibanti e qualche istante di Goethe, letti da diverse voci e lasciati rigorosamente incorrotti, secondo gli insegnamenti di Straub-Huilliet, nella loro lingua originale), Il Monte delle Formiche parte da un volo in soggettiva, preparazione di ciò che come ogni anno sta arrivando, per interrogarsi con sguardo piavoliano sulla vita e sull’universo, sui generi e sui ruoli, sulla società e sulla cultura. Il Monte delle formiche sono gli usi e i costumi di una porzione di mondo, l’attesa e il dì di festa, le tradizioni mariane e i giganteschi veli da sposa offerti alla Madonna delle Formiche. L’arrivo degli insetti è un eterno matrimonio, è il modo scelto dalla Natura per celebrare la centralità della donna nell’ecosistema, accentuato dai maschi morenti mentre le femmine porteranno avanti la specie, che si pone come miracolo, atto di fede, metafisica. Ed è quindi un qualcosa che deve ritrovare una sua fisicità, che ha bisogno di tornare terra, materia tattile, supporto fisico: non poteva che essere girato in pellicola, Il Monte delle Formiche, e non poteva che trovare un suo senso proprio nell’alternanza dei formati ridotti – gli insetti che dopo essere stati lungamente attesi ed evocati finalmente emergono come una nuvola indistinta dalla grana del 16mm tornando corpo, oppure le immagini della processione che accompagna l’altare sulla cima del Monte che, emergendo dai colori vividi del super8, sembrano d’altri tempi, immutabili come la data e il luogo di arrivo delle formiche, inafferrabili nel loro quadro leggermente traballante e nel loro gonfiaggio per il grande schermo, e quindi in un certo senso immortali nella morte.
Certo, a volte il confine fra ambizione e pretenziosità è molto sottile, e molto difficili sono gli equilibri nel determinarlo. In questo senso, Il Monte delle Formiche si configura come un qualcosa di estremamente interessante e dalla viva intelligenza, ma a tratti imperfetto, impeccabile dal punto di vista accademico eppure claudicante in qualche istante – in particolare le corse delle bambine sotto i veli – in cui le immagini e le parole sembrano smettere di dialogare fra loro, sfilacciando parzialmente la loro unità d’intenti per il resto così minuziosamente ben costruita. L’intensità è per ora minore rispetto a quella che hanno negli anni portato sullo schermo i dichiarati modelli cinematografici di riferimento e, a monte, il film non si pone propriamente come umile nel voler paragonare già in un’opera prima la ricerca di immortalità collettiva delle formiche con la ricerca di immortalità individuale dell’uomo, oppure nel voler cercare il senso della vita dell’uomo attraverso un superamento dell’essenza delle formiche. Eppure, pur con i suoi piccoli limiti e le sue leggere iperboli, è probabilmente proprio in questo sfacciato coraggio che sta la vera forza de Il Monte delle Formiche, ciò che tiene incollati allo schermo in attesa di un Godot entomologico, mentre un’intera valle si prepara al suo giorno immutabile, secolare, sempre così terreno e così mistico. Palladino è pronto a lanciarsi a capofitto in territori cinematografici ed esistenziali friabili, pruginosi, dai quali è molto complicato uscire con qualcosa da dire sufficientemente illuminante e originale, e vince la sua scommessa lavorando sulle fonti e sulla ripresa, sulle lingue e sui formati, sulla tradizione e sulla sua immutabilità nei tempi, sulla viva emozione del ritorno al miracolo. Perché è l’uomo che ha imparato dalle formiche a salire sul Monte fino al Santuario, ma non ne ha ancora imparato l’altruismo, la semplicità, la limpidezza. Le formiche emergono dalla grana e quasi si confondono con i rumori delle immagini a passo ridotto, prima lontane stagliate nel cielo, poi in contrasto sullo stipite di una porta, e infine vicinissime, enormi sullo schermo mentre si amano come ultimo atto prima della loro morte. Il Monte delle Formiche è un film sul ciclo della vita, sul tempo che scorre ma poi torna sempre ciclicamente all’8 settembre, sulle donne, sui luoghi, sull’eterno contrasto, sovrapposto come se fosse una dissolvenza, fra sacro e profano, fra mistico e scientifico, fra inspiegabile e reale. Fra le formiche alate e l’uomo, che da sempre sogna di volare.
Marco Romagna