Nasce nel ’97 da un sogno commosso e commovente di Tonino Guerra, Il lungo viaggio. Nasce da una prolifica collaborazione, da una radicata amicizia, da una non accettazione della morte. Nasce dall’illusione poetica di regalare a Federico Fellini, quattro anni dopo la sua prematura scomparsa, un “suo” film mai pensato né realizzato, eppure tanto profondamente felliniano nello spirito e nell’immaginario da riportarlo in qualche modo in vita come una fenice, almeno per 21 minuti e almeno nelle possibilità infinite del cinema d’animazione. Durante le notti di Tonino Guerra il regista di Rimini era ancora lì, nei pensieri e nei ricordi, nelle tante opere realizzate insieme e in quella mole infinita di disegni che Fellini, lungo tutta la carriera, è stato solito schizzare con china e matita su qualsiasi pezzo di carta gli capitasse a tiro. Bozzetti preparatori per ogni personaggio dei suoi film, ritratti e autoritratti, tele dipinte e quel Libro dei sogni su cui il regista ha fedelmente illustrato tutta la sua sfera onirica fra ossessioni e desideri, pulsioni e paure, passioni e spudoratezza, o per essere più specifici fra enormi tette, oggetti della quotidianità riletti in forma fallica e animali volanti. Figure e vignette che non aspettavano altro che essere fedelmente replicate per (ri)prendere vita, animate a mano da Andrey Khrzhanovsky con la sua squadra di disegnatori su sceneggiatura di Guerra, e con lo stesso Guerra impegnato in sala doppiaggio come narratore e unica voce. Anche lui, nella versione animata sullo schermo, nasce da un ritratto abbozzato qualche anno prima da Fellini mentre era ospite nel suo salotto, ma sul piroscafo, e quindi nel sogno abitato dai figli della creatività felliniana, il poeta e sceneggiatore non salirà in prima persona, preferendo prestare la voce all’avvocato con la bicicletta di Amarcord. Nel suo viaggio onirico, Tonino Guerra immagina tutti i disegni salire insieme sul Rex anch’esso già di Amarcord insieme alle versioni di carta dello stesso Fellini, cappello e sciarpa d’ordinanza, e di una tenerissima Giulietta Masina, quasi fosse una sorta di arca di Noé su cui non esiste la morte, non esiste la realtà in cui fare i conti con l’assenza, ma esistono solo il sogno e la fantasia, la narrazione e l’assurdo, il desiderio e l’ironia, l’estro e l’amore. E la nave va, ancora, fra stormi di suore in volo, veneri danzanti che puntualmente perdono i vestiti, cazzi al guinzaglio e un cannocchiale con cui osservare il mondo, o Giulietta, o La corazzata Potemkin, o ancora le isole verso cui salpare. Sperando invano che quella verso cui è diretto Federico Fellini non sia troppo lontana.
Proiezione speciale con cui la Mostra di Venezia numero 77 ha avuto occasione per celebrare i cent’anni dalla nascita sia di Guerra sia di Fellini, Il lungo viaggio è un omaggio sincero e dolcissimo, un piccolo capolavoro di breve distanza che alterna dissacranti remake animati di sequenze realmente girate da Fellini (i già citati E la nave va e Amarcord, ma anche il Satyricon, 8 ½, Giulietta degli spiriti, Prova d’orchestra, La dolce vita, persino l’iconica altalena di Sordi ne Lo sceicco bianco) con altri istanti mai filmati dal regista eppure inconfondibilmente “suoi”, frutto del suo immaginario profondamente capito e in qualche modo rievocato da Tonino Guerra e Andrey Khrzhanovky, frutto delle sue attrazioni e delle sue suggestioni, del suo pungente sarcasmo romagnolo e delle sue tipiche pennellate d’assurdo. Le tavole dell’animatore russo stagliano le figure più e meno rifinite di Fellini sul bianco della carta. Un tratto essenziale e chiarissimo, con i contorni netti e con gli sfondi quasi assenti, con i dettagli di colore e con i sederi tondi e smisurati. C’è chi balla e c’è chi vola, c’è chi manda baci e c’è chi suona il piano. Ci sono uomini-gallina e improvvide erezioni, ci sono danze di gala nel gran salone e fotografi pronti a immortalarne ogni momento. Ci sono bagni in piscina e corridoi che aprono e chiudono le porte nel rollio dell’imbarcazione, ci sono dame in costume del Settecento e piselli giganti che pendono dal cielo, ci sono seni che si gonfiano fino a scoppiare e c’è chi alza un braccio per indicare ai bambini gli istanti più piccanti in cui sarebbe meglio distogliere lo sguardo. Ci sono piatti da lavare e impilare come per magia, ci sono il tango, il can can e Il lago dei cigni, ci sono il ritmo sincopato e la lucida follia dei sogni. C’è Federico Fellini che osserva e dipinge sul ponte della nave, che parla ancora una volta dietro al suo megafono, che trasforma la sua immaginazione in arte, e soprattutto c’è la sua Giulietta Masina in ogni suo cambio d’abito e di ruolo. Prima ad avvicinarsi amorevolmente a Federico in silhouette nel tondo di un oblò, e poi ad accettare il suo abbraccio e il suo affetto diventando letteralmente una parte imprescindibile di lui, una costola, un arto, il cuore. Quasi una bambina, tanto è angelica e innocente nella sessualizzazione esasperata dell’immaginario felliniano. Lei, che dopo la morte lo avrebbe raggiunto in soli cinque mesi, come se nessuno dei due avesse potuto fare a meno dell’altro, come se avesse sentito una chiamata, come se si fossero dati l’ennesimo appuntamento. Del resto sapeva perfettamente che, in quell’isola lontana lontana chiamata Aldilà, avrebbe trovato un uomo con un cappello e con una sciarpa ad aspettarla per ricominciare a ridere insieme, a capirsi al primo sguardo, ad appartenersi. Questa volta davvero per l’eternità.
Marco Romagna