Non si potrebbe immaginare un’opera più liminale di Saul Fia, perché lo sconvolgente esordio di László Nemes – “figlioccio” di Bela Tarr vincitore del Grand Prix della giuria a Cannes – è un incubo ai limiti dello sguardo, un tour de force infernale che lavora sempre intorno ai confini dell’immagine, al rapporto tra campo e fuoricampo, al cortocircuito stesso della morale.
La camera, incollata alla schiena del protagonista, non lo lascia nemmeno per un secondo, concentrando il fuoco quasi unicamente sulla sua figura. Il teleobiettivo aderisce a un punto di vista selezionato, pulsante e forsennato, deformando tutto ciò che lo circonda. Gli orrori del campo di concentramento sono in gran parte fuori fuoco, ma è proprio questa loro zona di confine a renderli autenticamente protagonisti. Nemes, lavorando in sottrazione visiva, amplifica l’effetto del fuoricampo, facendone un polo attrattivo, una calamita impossibile da evitare, una traccia visivo-sonora potenziata proprio perché decentrata. Il 35mm, 4/3 e il long take diventano una questione morale, una necessità, una prigione dalla quale è impossibile fuggire.
Ecco dunque che un film sull’olocausto si trasforma in un’indagine circa la visione, l’orientamento scopico, il fuoco percettivo e la ricerca disperata di un punto di fuga (o di una stasi). Nemes ci invita a fissare l’osceno a occhi aperti, spalancati, perché sa di non poter girare intorno all’Olocausto, di non poter edulcorare, elidere, dimenticare. L’unica posizione morale può essere allora quella di guardare faccia a faccia, disvelando tutto ciò che non si può o non si vuole vedere.
Nemes lavora continuamente su uno scarto, quello tra visibile e non-visibile: ne deriva un cinema puramente esperienziale, iperpercettivo, che si dispiega in una sorta di crudelissima fenomenologia dell’oscenità. Nel fare questo sceglie il punto di vista di un uomo in bilico tra follia e anaffettività, che vive nella claustrofobia, dilaniato dalla costante mancanza d’ossigeno e dall’inevitabile azzeramento di qualsiasi memoria (la sequenza con la donna che lo chiama per nome è uno dei momenti più strazianti del film). Sarà proprio lui il soggetto di un percorso espiativo assolutamente anomalo, egoistico, perfino insensato: riuscire a seppellire un figlio morto (che non è necessariamente “il figlio”, come tutto nel film sta ad indicare). Un’impresa folle che si traduce nel più estremo, ingiustificabile atto d’umanità. Salvare un morto prima ancora di salvare un vivo. E’ proprio all’interno di questo meccanismo che il film alimenta la sua potenza, iscrivendosi in piani-sequenza asfittici dove ciò che manca è sempre il cielo. E poi, negli abissi della morale, la macchina a mano si fa sempre più concitata, l’immagine sembra esplodere fino a fermarsi – finalmente – in un finale “impossibile”: la liberazione di un nuovo bambino, impossibile da seguire. Quel bambino che – guarda caso – sembra proprio “resuscitato” dall’abisso.
Saul Fia si configura così come uno dei film più importanti dell’annata appena trascorsa e non solo. Un film umano, sofferto, etico. Un film imperdibile, capace di urlare sottovoce la probabile nascita di un nuovo grande Autore.
Samuele Sestieri