IL DIARIO DI UNA CAMERIERA (1964), di Luis Buñuel
Nella filmografia sempre surreale, antiborghese e anticlericale di Luis Buñuel, Il diario di una cameriera è probabilmente il lavoro più apertamente antifascista. Erano i primi anni Sessanta, in cui il regista era ormai rientrato in Europa dopo il lungo periodo messicano, trovandosi però stretto come in una morsa fra la feroce censura che di certo non apprezzava l’orgia/Ultima Cena di Viridiana (1961) e soprattutto il regime di Francisco Franco, che lo costrinse ben presto a ripartire per l’estero alternando le sue due patrie d’adozione, quel Messico in cui tornerà ancora per girare L’angelo sterminatore (1962) e Simon del desierto (1965), e quella Francia già degli esordi con Un chien andalou (1929) e L’age d’or (1930), nella quale Buñuel farà appunto ritorno nel ’64 per girare Il diario di una cameriera e poi dal ’67 di Bella di giorno per altri dieci anni fino alla fine della carriera con, in sequenza, La via lattea, Il fascino discreto della borghesia, Il fantasma della libertà e Quell’oscuro oggetto del desiderio, inframezzati nel 1970 solo da un ultimo e singolo ritorno produttivo in Spagna con Tristana. Nella filmografia di Buñuel, si diceva, Il diario di una cameriera è probabilmente il film più apertamente antifascista: era una questione più che mai personale, che alla solita ferrea volontà di porre l’accento, esponendo al ludibrio, su tutta l’ipocrisia di una classe borghese brulicante di vizi, appetiti inconfessabili e sprezzo per il prossimo, vedeva una necessità intima di combattere contro il patriottismo deviato, la xenofobia e l’arroganza di Stato con cui la Spagna di Francisco Franco perseguitava impunemente i dissidenti e gli artisti.
In questo senso, per quanto Il diario di una cameriera si regga quasi interamente sulla cameriera Céléstine a cui presta corpo, voce e seducente magnetismo una straordinaria Jeanne Moreau più che mai intrigante nell’ambiguità del suo personaggio, e per quanto tutti nella casa borghese in Normandia nella quale prende servizio, dal vecchio vizioso e feticista alla figlia frigida e maniacale, dal di lei marito cacciatore di donne ben più che di animali a una servitù ormai invischiata nel ventre molle dei propri padroni borghesi, passando per il vicino di casa come una sorta di Anacleto Mitraglia protetto dalle sue medaglie da soldato, maligno e vendicativo, siano falsi, ipocriti e pieni di scheletri nell’armadio, il vero protagonista/antagonista del film è forse Joseph, il custode della villa, militante di estrema destra antisemita, assassino e pedofilo, impegnato a scrivere manifesti di delirante (ultra)nazionalismo in combutta con il curato interpretato dal co-sceneggiatore Jean-Claude Carrière omaggiato dal 35mo Bergamo Film Meeting – “Vedrai che i preti ci aiuteranno a uccidere tutti gli ebrei”. Nel personaggio di Joseph, più disgustoso degli altri, e in quella Francia di metà anni Venti in cui è ambientata la vicenda, una “Francia ai francesi” di atroce attualità che inneggia a quel prefetto Chiappe che di lì a poco avrebbe censurato per oltre 20 anni L’age d’or, Luis Buñuel costruisce tutta la sua invettiva politica che si affianca all’abituale lucidità sociale, eppure anche nell’animo di Céléstine, convinta che sia proprio Joseph lo stupratore e assassino di Claire – la piccola orfana che si aggira(va) per casa e per le campagne come unico personaggio degno di pietà – al punto di essere disposta a tornare indietro e sedurlo pur di riuscire a incastrarlo, l’uomo e il maligno che emerge dal fondo dei suoi occhi suscitano un sentimento contrastante, dove all’odio più profondo si mescola il desiderio, dove alla vendetta si mescola la consapevolezza crescente di un’agghiacciante similitudine nel fitto più oscuro dell’anima.
Tratto dall’omonimo romanzo di Octave Mirbeau già messo una prima volta in scena, nello stesso stile diaristico del libro che Buñuel e Carrière decideranno di accantonare, da Jean Renoir nel 1946, Il diario di una cameriera prende le mosse dall’arrivo di Céléstine nella nuova dimora e presso i nuovi padroni, da Parigi alla campagna, dai profumi sofisticati della grande città al più ipocrita dei rigori provinciali, in una villa asfittica nel suo nugolo di stanze e nel suo arredamento pesante, ostentazione forzata di benessere quando invece si tratta solo di cupidigia, egoismo, vizi nascosti sotto il tappeto, intolleranza e rapporti oscuri fra istituzioni e poteri. Dove Renoir poneva l’accento sull’avarizia e sullo sfruttamento del lavoro del prossimo, Buñuel affonda la lama nella carne, puntando i fari sull’ambiguità sessuale, sui feticismi, sulle devianze e sui rapporti a cui le serve sono costrette dal padrone. Nel sesso, argomento tabù per antonomasia e principale velo da squarciare nell’apparente pulizia della borghesia e di chi ci gravita intorno, Buñuel innesta tutta l’ipocrisia di chi, pedofilo e assassino, non vuole consumare prima del matrimonio ma sogna di trasformare la futura moglie in una sorta di prostituta d’alto borgo per soldati “patrioti” a Cherbourg, ma anche l’ambiguità di chi è combattuta fra la risolutezza nel fare giustizia e un’attrazione fatale. Sta tutto in uno zoom, l’unico del film, in cui deflagra il cambio d’espressione di Céléstine, lo sguardo al contempo complice e indagatore: “L’hai uccisa tu, vero?”. Joseph, in Renoir, non è l’incarnazione del fascismo e dell’antisemitismo, non stupra e non uccide una bambina, eppure finirà linciato dalla folla che si riprende ciò che è suo, gli averi lungamente accatastati calpestando il popolo e sfruttando il suo lavoro; in Buñuel invece, in questo senso più fedele a Mirbeau e paradossalmente ancora più tragico, il pedofilo omicida e xenofobo non solo sopravviverà, ma verrà scagionato dalle accuse per insufficienza di prove e riuscirà a coronare il suo sogno di tornare nel paese natale per aprire un bar dal quale veder sfilare le milizie destrorse verso la presa del potere. Ha vinto, Joseph, eppure la sua vittoria personale non è altro che una sconfitta ben più grande: per l’uomo, per la giustizia, per un intero mondo che stava per procedere a grandi falcate nell’oblio del nazifascismo.
Il diario di una cameriera, impietoso e sottilmente crudele, si inoltra nelle pulsioni patologiche, per lo più e non certo a caso sessuali, di quel mondo borghese e clericale incapace di dire la verità, incapace di essere puro e sincero, incapace di ammettere i propri limiti e le proprie colpe. Emerge un campionario di uomini e donne cinici e disinteressati, grezzi nel loro ostentare a ogni costo una sofisticatezza che nient’altro è che mero possesso, negativi e disprezzabili, fastidiosamente autocompiaciuti e stretti nella calda coperta della loro ipocrisia. Nemmeno i servi si salvano dalle accettate di Luis Buñuel, come se convivere con la marcescenza portasse inevitabilmente a scoprire il fianco a quella stessa falsità, a quella stessa avidità, a quella stessa malignità che i padroni irradiano quotidianamente nei loro inutili giri in carrozza, nella loro ossessione per gli oggetti, nei loro impulsi lubrichi, nei loro feticismi per un paio di stivaletti che l’anziano padrone di casa obbliga le cameriere a portare per poi prenderli con sé e chiudersi in una stanza se necessario fino alla morte, magari proprio mentre Joseph, lanciato come un cinghiale contro l’innocenza di un candido coniglio, commette impunito il più orrendo fra i crimini. C’è una violenza latente che, per tutto il corso del film, scorre al di sotto del bianco e nero dei fotogrammi, si insinua nei rapporti interpersonali e nell’agghiacciante disinteresse di una polizia che, anziché ascoltare una possibile testimone in un caso di infanticidio, preferisce continuare a redigere un inutile verbale. La stessa indifferenza in divisa che emerge nelle autodifese del vicino che Céléstine, pur di fuggire a Joseph, finirà per sposare in un matrimonio di puro interesse, legandosi a un altro ipocrita che diventerà amico del suo più acerrimo rivale e che commenterà la scarcerazione di Joseph dicendo che “Un vero patriota, in fondo, non può essere cattivo”. Con Il diario di una cameriera, Luis Buñuel esprimeva ancora una volta e forse in maniera più chiara che mai tutto il suo disprezzo nei confronti della borghesia, del clero, del potere, dell’esercito e dell’economia, confezionando un film contro l’intolleranza e contro i fascismi fatto di pulsioni sessuali, di “Prima devo ambientarmi” e di sguardi ammiccanti. Un capolavoro fra i capolavori, ancora più diretto rispetto all’impossibilità surreale di uscire dalla borghesia messa in scena ne L’angelo sterminatore, un film agghiacciante, nervoso, politico: una zampata contro l’antisemitismo, una stilettata contro lo sfruttamento e la religione, uno sguardo di sfida verso i fascismi del quale, oggi più che mai, c’è (di nuovo) bisogno assoluto.
Marco Romagna