IL DELITTO MATTEOTTI (1973), di Florestano Vancini

Pare che Il delitto Matteotti (1973) di Florestano Vancini godesse anni fa di una certa popolarità nelle scuole. Piace tanto, in generale, l’espressione “Questo film andrebbe fatto vedere nelle scuole”. Non so se tuttora il film goda della stessa visibilità presso alunni e studenti. Vero è che la sua visione rinnoverebbe davvero gli intenti didattici degli istituti italiani d’istruzione. Mostrerebbe senza la mediazione della parola scritta che cos’è stato il fascismo, ritratto in tutta la sua violenza politica, umana e sociale, senza mezzi termini. In fondo è stato proprio il nobile intento di interpretare la storia a condurre poco alla volta verso una generale sublimazione del tema negli ultimi decenni. Interpretare e capire fa sempre bene. Annullare lo spirito critico in nome di una generica (e di fatto mai realizzata) pacificazione non fa mai bene. Se sulle ragioni storiche del fascismo si può speculare all’infinito (e personalmente lo trovo un tema anche molto affascinante), d’altro canto sarebbe ora di abbandonare espressioni alla volemose bbene, che annullano la profondità dell’analisi. Non è esistito un fascismo buono e un fascismo cattivo. Le scuole, le bonifiche e i treni puntuali non crediamo siano sufficienti. Dove c’è annullamento di democrazia, non c’è mai bene. E non basta appellarsi al facile refrain “Tanto è passato, roba vecchia, che stiamo ancora a discuterne”. La cronaca italiana più recente va proprio, purtroppo, in tutt’altra direzione. L’antifascismo chiaro e netto, per un paese che è fondato su tale principio, sembra essere diventato invece una patata bollente dalla quale tanti, troppi si smarcano scaltramente tramite diplomatiche esternazioni o magari scegliendo uno strategico silenzio. O peggio, con pieno atto di volgare incoscienza vengono usate parole che si dirigono proprio altrove. D’altra parte, si sa, i treni puntuali sono un enorme rimpianto.
In tale contesto Il delitto Matteotti – facilmente reperibile in versione integrale su Youtube anche in fondo a questo scritto – fa l’effetto di uno schiaffo in pieno viso e a mano aperta. Il rapimento e l’uccisione di Giacomo Matteotti si trasformano in occasione narrativa per cogliere l’Italia nell’esatto momento in cui l’autoritarismo di un regime ancora fintamente parlamentare si tramuta rapidamente in dittatura. Sono mesi cruciali: l’atto violento nei confronti di Matteotti, poco dopo le elezioni del 1924 tenute in un clima di terrore generalizzato, è una prima alzata di tiro del fascismo contro le opposizioni e la libertà di pensiero. È un segnale che il fascismo decide di dare alla politica e al paese intero, assumendosi però anche dei rischi. Nel volgere di un anno una parte dell’Italia cerca di scuotersi nell’indignazione, mentre le opposizioni, chiusesi nel noto Aventino (che il film di Vancini giudica apertamente come un errore storico) mirano a soluzioni ancora nell’ambito delle istituzioni, con la sola e significativa eccezione di Antonio Gramsci e del suo gruppo. Per un attimo pure il polso di Mussolini sembra tremare. Diventa quindi necessario un ulteriore giro di vite, l’avvento di una conclamata repressione di qualsiasi forma di dissenso. Apertosi sul celeberrimo discorso alla camera di Matteotti, il film si chiude a cerchio col discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, col quale il Duce si assunse tutte le responsabilità dell’omicidio inaugurando implicitamente i tempi della dittatura. Poco dopo inizieranno le persecuzioni contro le opposizioni e la guerra totale a ogni libera manifestazione del pensiero.

Florestano Vancini sposa il cinema d’impegno civile che veniva affermandosi in Italia fin dagli anni Sessanta e che troverà la sua stagione più fertile nei Settanta. Un cinema saldamente diretto, popolare e senza filtri, che ha ben chiari i propri contenuti e messaggi. A ben vedere, Il delitto Matteotti mescola anche in modo originale più approcci al racconto. Resta primario l’intento di cronaca storica, tramite una meticolosa ricostruzione di fatti e parole che, in una saggia struttura polifonica, riesce a rendere chiara e splendidamente fluida la narrazione di una miriade di personaggi. Si fissano tutti nella memoria, uno dopo l’altro. E pazienza se sulle orme del proprio intento fortemente popolare Vancini si concede il vezzo delle inflessioni dialettali. Anch’esse si tramutano in strumento di immediata immedesimazione per il pubblico, che può riconoscere in un attimo, dalla somiglianza fisica e dal dialetto, Gramsci, Turati, De Gasperi, Sturzo, Gobetti, Amendola, Mussolini e via così. Tale metodo non è del tutto esente dalla goffaggine dei sosia stile-Bagaglino, ma a riequilibrare il film interviene l’enorme sapienza narrativa, la capacità di valorizzare e fluidificare una splendida sceneggiatura che per tre quarti si affida a complessi confronti politici. Vancini riesce a mantenersi popolare e appassionante senza cedere un centimetro alla semplificazione. Ma accanto al braccio principale della cronaca storica, Vancini intreccia in piena libertà la struttura di una detection che per sua natura non può compiersi. Nella terra dei misteri di Stato, l’omicidio di Giacomo Matteotti non può che profilarsi come una prima verità differita e oscurata, rimanipolata tramite primitivi strumenti di comunicazione di massa (pure il ritrovamento del cadavere sarà studiato ad arte) che Mussolini mostra di saper maneggiare abilmente. Non importa la verità, importa ciò che si racconta, e come, di quella verità. Così, parallelamente ai tormentosi confronti tra i leader dell’opposizione e alle macchinazioni di chi col fascismo andava a braccetto (Vaticano, Confindustria…), si svolge anche un sommesso giallo storico che trova in due figure laterali i suoi momenti più convincenti. L’inchiesta sulla morte di Matteotti fu infatti affidata a due magistrati che sono qui incarnati da due attori di distanti generazioni. L’anziano giurista Mauro Del Giudice è interpretato da Vittorio De Sica, giunto a una delle sue ultime apparizioni al cinema, mentre il magistrato Umberto Tancredi ha il volto florido di un Renzo Montagnani non ancora salito agli onori della fama con la commedia sexy. Sono una coppia inedita e strana, particolarmente affiatata. In mezzo a una folla di attori (e anche non-attori: a Giovanni Amendola dà il volto il regista Damiano Damiani) chiamati a prestare la propria fisionomia a personaggi di rilievo storico, le figure di Del Giudice e Tancredi scartano verso la medietà dell’onesto uomo di legge. Privi di qualsiasi fierezza eroica, i due cercano solo di fare il proprio dovere, far funzionare la legge super partes in un contesto dove non è più praticamente possibile. Se Del Giudice conserva più i tratti dell’integerrimo giurista, che quando si tratta di far valere il diritto non guarda in faccia a nessuno, ancor più significativo è forse il profilo del Tancredi di Renzo Montagnani. Uomo di simpatie fasciste, Tancredi non va incontro a un edificante “viaggio dell’eroe”, non scoprirà didascalicamente il “vero volto del fascismo”. Il suo è un sommesso percorso in mezzo a un paese affascinato dalla violenza, verso il quale da borghese non si può far altro che abbozzare una smorfia di dubbio e niente più, prima di tornare a casa ad ascoltare la radio (vedere per credere: la finezza attoriale di Montagnani nel meditabondo passaggio di Tancredi in mezzo ai contestatori di Del Giudice). Vancini si avvale di uno degli attori che meglio hanno saputo dare volto e intonazione alla quiete borghese di casa nostra, quel Renzo Montagnani la cui fisionomia diventerà non a caso l’immagine più perfetta della borghesia crapulona nel contesto della commedia sexy. È quella quiete, in fondo, il migliore garante per l’avvento del fascismo. Per cui se da ogni lato Il delitto Matteotti tracima di figure e dialoghi intorno ai destini dell’Italia, i profili più riusciti e dolorosi risultano quelli più umani, ripiegati nell’intimo, appena alle soglie di un’amara impotenza.

Vancini non rinuncia neanche al vizio un po’ italiano di parlare del presente attraverso il passato tramite rimandi macroscopici; così il film mette in bocca a Confindustria e a Mussolini osservazioni antisindacali che non possono non trovare terreno fertile negli anni del montante conflitto sociale quando il film fu realizzato. Ma è anche abbastanza sorprendente come il passato utilizzato per parlare di “quel” presente si allunghi tetramente a raccontare anche il nostro presente (o sarà forse vero che l’Italia è il paese antropologicamente più immobile del mondo). Nel nostro paese la polemica sull’indipendenza del potere giudiziario ritorna tristemente per cicli costanti, così come l’aspirazione a un Presidente del Consiglio con maggiori poteri riemerge ad animare periodicamente progetti politici e campagne elettorali. Per giungere al proprio scopo Vancini alterna momenti di crepuscolare distensione narrativa, specie quando si chiude qua e là nella sfera privata, agli effetti-shock di un cinema che vuol fare memoria storica, riflettere ed emozionare (fermo-immagine, montaggio spezzato, enfasi musicale nella drammatica partitura di Egisto Macchi, accenti grotteschi nella rappresentazione di Mussolini e Vittorio Emanuele III, “cinéma-vérité” durante le aggressioni a Matteotti e Gobetti). È in ultima analisi un cinema estremamente generoso, che ama il proprio pubblico, mosso dal profondo desiderio di chiamare le cose col loro nome, merce sempre più rara nei nostri pallidi (se non cupi) orizzonti. Che ama, sopra ogni cosa, la propria gente e il proprio paese. Quello nato dopo il ’45. Solo nella democrazia può esistere un vero popolo. Il resto è solo paccottiglia.

Massimiliano Schiavoni