Quello messo in scena ne Il cuore del Tiranno, ovvero Boccaccio in Ungheria, co-produzione italo-magiara del 1981 per la regia di Miklós Jancsó, è un kammerspiel che si erge ad apologo allegorico e surreale della rappresentazione e della finzione, è un impianto metacinematografico e metateatrale claustrofobico eppure rutilante, è un continuo cambio di punto di vista nel quale ognuno è al contempo manipolatore e manipolato, tutti recitano una o più parti ma nessuno dice il vero, e forse una verità neppure esiste più, nascosta nelle pieghe più sordide dei giochi di potere. Le vittime e i carnefici si scambiano continuamente i ruoli in una sorta di danza infernale sospesa fra la sete di potere e il potere della finzione, mentre lo stile del regista si fa, se possibile e per l’ultima volta (nei successivi lavori, Jancsó opterà per una messa in scena più tradizionale e per ambientazioni contemporanee) ancor più radicale e coreografico, stilizzando personaggi e situazioni in un set-palcoscenico piccolo, chiuso e cangiante fra l’inquadratura sempre in movimento in pianisequenza solo di poco meno complessi rispetto a quelli di Elettra, amore mio, la pioggia comandata e gli spazi coperti con le pedane girevoli munite di carrello sulle quali spesso agiscono gli attori. Fotografato da Janós Kende con colori particolarmente saturati e forti ombreggiature, Il cuore del Tiranno è un dramma d’interni, è un’elegia familiare e cortigiana, è in un certo senso una sorta di summa del cinema di Miklós Jancsó fatta di ricorrenti mani sporche di sangue, musiche al solito diegetiche con musici e cantanti in scena, sinuosi guizzi espressionisti della macchina da presa e ormai disincantate prese di posizione politica.
I personaggi si rivolgono direttamente alla macchina da presa sfondando la quarta parete, muoiono per poi riapparire nella scena successiva, vivono i piaceri più effimeri della carne come unica possibile salvezza dalla repressione che subiscono dal punto di vista sociale, politico e artistico. Ma soprattutto mettono in scena una continua finzione nella finzione, si ingannano, si tradiscono, cambiano identità a seconda della piega che prende la vicenda pur di mantenere un ruolo, eliminano la distanza fra il palco e la corte, fra l’illusione del teatro e l’illusione di una realtà fondata sulle menzogne, mettendo in luce e alla berlina una brama deviata che è più forte anche dei rapporti di sangue. Miklós Jancsó gioca con il visibile e l’invisibile, con il campo e il fuoricampo, lascia i personaggi e li riprende poco dopo con spostamenti apparentemente impossibili, mescola sapientemente l’ironia grottesca con la più acuta lucidità politica e con un amore indefesso nei confronti del mezzo Cinema.
L’ambientazione storica, la corte magiara del ‘400 che richiama dall’Italia il giovane poeta Gàspàr per (fingere di) farlo sovrano dopo l’oscura morte di suo padre, nient’altro è che un ulteriore esempio dell’atemporalità del cinema di Jancsó, nel quale il passato viene rievocato e adattato per riflettere sul potere presente e futuro. E infatti, dal punto di vista temporale, ne Il cuore del Tiranno vale tutto, si veda la madre più giovane del figlio verso la quale Gàspàr prova il più classico dei complessi di Edipo, ma anche l’impossibilità di andare in scena per la compagnia di attori bolognesi (spicca nel cast la presenza di Ninetto Davoli come capo dei guitti e fraterno amico di Gàspàr) incaricata di mettere in scena Boccaccio ma continuamente ostracizzata da una corte che soffoca una rappresentazione che non avverrà mai con un’altra rappresentazione ben più grande e radicata: l’illusione di una realtà. A Gàspàr vengono raccontate verità differenti sulla morte del padre, viene spacciata una giovinetta per sua madre, viene presentato uno strano uomo turco particolarmente abile con la spada: tutte finzioni, tutte illusioni, tutti inganni e doppi giochi. Jancsó annulla o quasi la profondità psicologica dei personaggi per utilizzarli come efficaci metafore stilizzate, attori di un inganno equamente spartito fra eros e thanatos, un viaggio nel quale addentrarsi, perdersi e ritrovarsi, un girone che attraversa, fra teatro e cinema, una moltitudine di personaggi e di logicissimi nonsense che riportano alla mente Pirandello e Fellini, e nel quale si riescono a fondere miracolosamente la lotta di classe di Pasolini (viene spesso in mente Porcile, ma anche I racconti di Canterbury e ovviamente Il Decameron) e il germe più seminale e smaccatamente ambiguo del Cronenberg di Inseparabili e Videodrome. I corpi nudi femminili, ricorrenti nel cinema di Jancsó, vengono ostentati non certo come provocazione ma piuttosto come emblema dell’istintualità umana e forse unica possibile soddisfazione nella decadenza terrena, mentre la morte si insinua nella narrazione fra i racconti menzogneri di un dolore materno placato ogni notte con il sangue e la verità che lentamente emerge dall’oblio annichilendo Gàspàr come le frecce scagliate da un plotone.
Quando gli inganni sono stati progressivamente rivelati, la finzione sembra aver ceduto e gli attori, fra cui Gàspàr, sono finalmente liberi di aprire le porte del teatro di posa e uscire liberi nei prati, la macchina da presa si ferma a guardarli correre felici nel mondo reale. Ma il set, così come la stessa finzione teatrale e cinematografica, è una sorta di protezione da una realtà spesso ben peggiore, da un mondo troppo vasto e pericoloso, indefinito e assassino per natura. Con l’apertura verso l’esterno ricomincia l’ignoto, ricomincia il fuori fuoco, ricominciano ad essere visibili i limiti dell’inquadratura come ostacolo verso l’infinito. Ed ecco che, dalle spalle della macchina da presa, come a indicare che anche gli spettatori devono sentirsi parte dell’inganno e attori della realtà solo rappresentata che stanno vivendo, si sentono degli spari e i protagonisti cadono uno ad uno. Siamo stati noi a premere il grilletto, fermi trentasei anni dopo davanti a uno schermo bergamasco ma al contempo complici del grande inganno perché soddisfatti dai piaceri effimeri e resi inerti dalla pancia piena. In fondo, siamo tutti manipolatori e manipolati, siamo noi i saltimbanchi, siamo noi quelli che vogliono diventare re. E che invece si accontentano di avere un piccolo ruolo in un mondo fasullo. Con Il cuore del Tiranno, ovvero Boccaccio in Ungheria continua quindi l’acuta riflessione di Miklós Jancsó sulle derive del potere, continua la sua ossessione per l’inganno, la menzogna e il tradimento, continua il suo cinema di spazi e di corpi, di pelle e di danza, di moto e di erotismo. Ma soprattutto, in un climax che dal teatro passa dolcemente al (meta)cinema, il regista magiaro dichiara il suo amore per la settima arte, per la macchina da presa come attore aggiunto, per lo spazio scenico, per l’illusione e per la rappresentazione. Firmando l’ennesimo film straordinario, che ancora oggi riesce a graffiare e rapire, stimolare e stuzzicare, ridere, storidire e fare sentire sinceramente in colpa.
Marco Romagna