IL CRATERE (2017), di Silvia Luzi e Luca Bellino
Vengono dal documentario, Silvia Luzi e Luca Bellino. Vengono dall’osservazione della realtà, ed è stato quindi quasi automatico, nel loro primo lungometraggio di finzione selezionato alla 32ma Settimana Internazionale della Critica annessa a Venezia74, mantenere lo stesso radicamento nel sociale, nel territorio, addirittura nell’intimità del nucleo familiare. Il cratere parte e si costruisce intorno a Sharon Caroccia, appena 16 anni e il controllo vocale di una consumata star della musica, tanto da portare il padre a investire i pochi proventi del suo carretto con cui vende peluches per produrla e tentare di farla sfondare nel mondo neomelodico napoletano. Ma le premure del padre saranno destinate a diventare sempre più asfissianti vessazioni, un pensare al proprio bene anziché a quello della figlia, uno sfruttamento delle sue doti canore per tentare di cambiare tenore di vita. Fino all’inevitabile rottura, ai rifiuti, al letto trovato vuoto, e agli inevitabili sensi di colpa di quello che, anche se obnubilato dai sogni di gloria e ricchezza, è pur sempre un padre che ha fatto scappare una figlia amata. Nel loro rapporto e nel loro radicamento nel territorio fra dialetto e lavori inventati di sana pianta, Luzi e Bellino scandagliano il sottoproletariato partenopeo, in un continuo vorticare di climax emotivi, litigi e segni d’affetto, volti corrucciati e sorrisi, esibizioni e canti in famiglia. Il cratere non è semplicemente quello del Vesuvio, ma è anche quello che i Caroccia aprono sulla realtà nella quale sono calati: una realtà priva di certezze, fatta di muri scrostati e di fiere di paese, fatta di vicini di casa e di necessità di arrangiarsi, fatta di sigarette incenerite, di conflitti interni mai realmente sanati, di costante alternanza fra quiete e tempesta. Come se fossero piccole scosse di terremoto, così imprevedibili, così improvvise, così inevitabili.
Il confine fra realtà e finzione è labile, perché lucida e acuta è la fotografia dei margini partenopei, perché Sharon ha di sicuro un talento fuori dal comune, perché i video delle sue canzoni realmente spopolano su YouTube, perché la famiglia Caroccia costruisce e realmente vende animali di pezza, ma di certo il padre Rosario, anche co-autore della sceneggiatura, non è lo stesso padre autoritario, violento ed egoista che emerge nel romanzo di formazione messo in scena. Il centro focale è lei, Sharon, letteralmente magnetica sullo schermo, in un esordio da attrice degno di una diva del cinema d’antan. È la “gallina dalle uova d’oro” di papà, impegnata a crescere in fretta, a migliorarsi costantemente, a dare il massimo, fino alla necessità di liberarsi da una pressione che si fa sempre più insostenibile, a ribellarsi e poi a fuggire come unica via per poter vivere liberamente la propria adolescenza. Prima di tutto c’è la periferia di Napoli, c’è la difficoltà nell’arrivare a fine mese per chi non ha la certezza di un lavoro fisso, ci sono i pesanti sacrifici economici per inseguire un sogno, ci sono i duri allenamenti per la voce e ci sono le estenuanti sedute in sala di registrazione. Il canto per Sharon è un dono, ma i testi e gli arrangiamenti delle canzoni vanno pagati ai loro autori, così come vanno pagate la registrazione e le comparsate televisive sulle reti locali, sia che si rivelino una fondamentale scalata verso il successo, sia che si rivelino un buco nell’acqua. A Sharon viene chiesto maggiore trasporto nell’interpretazione, come se le parole fossero sue, come se fosse realmente suo il canto generazionale che emerge dal testo, come se lei non fosse solo una talentuosa ragazzina, ma una donna fatta e finita, che ha già vissuto e sofferto. Quella del padre è una richiesta che si fa via via sempre più impossibile, soffocante, che deflagra nelle telecamere di sorveglianza nascoste in giro per casa e ancor più in una violenza psicologica costante, insostenibile, che obbliga la ragazzina a rinunciare alle amichette e ai giochi che la sua età imporrebbe per esercitarsi nella respirazione diaframmatica, o peggio che la umilia e la fa costantemente sentire in colpa per i suoi non (ancora) successi che obbligano Rosario a continuare a lavorare con il suo carretto.
Silvia Luzi e Luca Bellino compiono un percorso cinematografico in sostanza simile a quello che ha compiuto/che sta compiendo, insieme ai rom di Rosarno, Jonas Carpignano, il cui ultimo A Ciambra già in Quinzaine a Cannes è uscito proprio in questi giorni nelle sale. È una vera famiglia che si mette in scena, che recita nel ruolo di se stessa eventi non reali, ma perfettamente calati nella realtà sociale e quindi perfettamente credibili. Luzi-Bellino, nel loro scandagliare Il cratere del proletariato, non manipolano il reale, ma ne cercano di estrarre l’essenza più primigenia, il paradigma, l’uno che sia in grado di riassumere tutti, centrando un film forse diseguale, forse meno incisivo nella seconda parte rispetto alla sontuosa partenza che segue l’andamento neomelodico della (splendida) canzone cantata da Sharon, ma con una ben precisa idea di cinema e un ben preciso afflato sociale. La loro macchina da presa è mobile, a mano, splendidamente “documentaristica” nel suo nervosismo, nel suo cercare sempre la vicinanza ai protagonisti, nel suo non badare a qualche sfocatura, perché quello che conta non è la pulizia, ma il realismo e lo sguardo. Una scelta stilistica diversa ma complementare a quella compiuta dal “nostro” Elio Di Pace nel suo Le visite, genialmente programmato dal comitato di selezione SIC capitanato da Giona Nazzaro proprio ad aprire Il cratere. Elio ha scelto l’estetica low-fi delle televisioni d’antan e uno stile minimale fatto di zoom sottolineati anche in audio, mentre Luzi-Bellino hanno optato per una macchina da presa ben più moderna, ma anche loro hanno sentito la necessità di “sporcare” l’immagine per renderla più vera, più accorata, se possibile più vicina ai suoi protagonisti. Il loro è un lavoro sorprendente, non privo di qualche lungaggine, altalenante nel suo sostanziale andamento neomelodico, ma pulsante, accorato, vivo: un “vedi Napoli e poi vivi” di rara potenza, che non può che rimanere negli occhi e nel cuore.
Marco Romagna