IL CONFORMISTA (1970), di Bernardo Bertolucci
Dopo aver sentito in confessione Marcello dire di aver ucciso una persona che ha tentato di violentarlo da bambino, il prete gli chiede se le sue idee atee sono legate ad una sorta di insurrezionismo. Marcello, stufo per la confessione prolissa e stanco dell’analisi moralista proposta dal prete, risponde di far parte dell’organo che sconfigge gli insurrezionisti, ovvero il fascismo. Il prete non aspetta neanche un secondo prima di dire: «ego te absolvo a peccatis tuis». Marcello è incredulo. Il mondo attorno a lui è più veloce di lui, più convinto di lui, pensa meno di lui; non si conforma agli altri ma è conforme agli altri, come lo Stato che si deve modellare al cittadino per fare in modo che il cittadino prenda come modello lo Stato. Lo sguardo solido e marmoreo di un Jean-Louis Trintignant straordinariamente simile a Mussolini osserva nel confessionale aspettandosi qualcosa, ma ormai è finito. In uno sguardo insignificante, attraverso la grata di un confessionale o più tardi attraverso delle sbarre in una notte particolare, è tutto finito.
Doveva esserci Stefania Sandrelli a Locarno quest’anno per presentare una versione restaurata in DCP dalla Cineteca di Bologna de Il conformista (1970), probabilmente il capolavoro massimo di Bernardo Bertolucci, tra i più amati e discussi autori del cinema italiano; ma purtroppo l’attrice, protagonista femminile del film insieme a Dominique Sanda, non ha potuto presentarsi. Entrare in sala comunque, però, è praticamente un obbligo: nuotare tra i colori di Storaro, immergersi nelle note di Delerue, specchiarsi nello sguardo di Trintignant… riscoprire dunque un film italiano d’importanza capitale, un vero capolavoro di culto. Dramma politico tratto dall’omonimo romanzo di Moravia del 1951, Il conformista gira attorno a due poli: la sessualità e il fascismo. La trama gira attorno a Marcello (interpretato da Trintignant), un conformista a tutti gli effetti: membro della polizia segreta fascista ed ex-studente di filosofia, Marcello si è da poco sposato con Giulia (Stefania Sandrelli), una borghesotta superficiale, per avere un’illusione della normalità. In Luna di Miele i due vanno a Parigi, dove Marcello deve assassinare il suo vecchio insegnante di filosofia, il professor Quadri (Enzo Tarascio), antifascista, la cui seducente moglie (Dominique Sanda) entra a far parte delle vite di entrambi i neo-sposati.
Il film è un’attenta analisi dell’ipocrisia dell’uomo novecentesco attraverso la crisi della sessualità nel tempo della psicoanalisi e attraverso il fascismo, e con esso le relative contraddizioni e i necessari valori di un regime dalla sua massima gloria alla sua caduta. Il film è un’analisi psicologica di un solo personaggio, ma nella sua prima parte mostra anche un collage scenografico del mondo attorno a lui, il mondo che l’ha partorito e l’ha fatto nascere così morto dentro, marcio, finto. La madre con l’amante asiatico detto Alberi, il padre folle e antifascista, le lettere anonime dell’anziano ex-amante di Giulia; Roma, con le sue strade e i suoi uffici, opprimente come un mondo distopico orwelliano, o la casa della madre, sporca e disordinata ed emblema forse del caos e della confusione dell’infanzia; Parigi, nella sua bellezza mistificata, miracolante e vivifica; la foresta che si innalza e circonda i corpi, con una luce violenta e tagliente, la stessa della casa in cui Marcello è stato vittima di molestie da bambino; la macchina di Manganiello (Gastone Moschin), eccetera. Con un senso dell’umorismo a volte triste e a volte smaccatamente provocatorio, Il conformista avvolge attorno a Marcello un’aura di tensione crescente, facendo subire a lui e al suo sguardo le azioni rilassate e incessanti di chi lo circonda, e facendo subire allo spettatore l’irrazionale e a volte insopportabile atteggiamento che lui ha verso sé stesso e gli altri. La relazione con Giulia altro non è che un qualcosa che lui ha creato per necessità conformiste, per creare un’illusione, una maschera: lei è una ragazza superficiale ma tenera, ingenua e genuinamente cotta di Marcello, il quale continua la relazione a causa della sua sensualità, della sua energia. La scena dell’amplesso in treno è esemplare: mentre una soffusa luce arancione penetra dalla finestra, Giulia e Marcello fanno l’amore seguendo la narrazione che Giulia fa della sua relazione sessuale con un amico dei suoi genitori (il dottor Perpuzio), con Marcello che via via imita le azioni attribuite a questi, come “conformandosi”, anche sessualmente, a ciò che c’è già stato. E quando la narrazione si conclude e Marcello deve fare sesso con Giulia senza seguire indicazioni, Bertolucci inquadra la finestra, lascia l’amore fuori campo e si dedica alla luce di Storaro, che in uno stacco unico passa dall’arancione ad un buio cupissimo. E Storaro, come in sostanzialmente ogni film su cui ha lavorato, è senza dubbio tra le cose più degne di nota del film: la scena in cui Marcello racconta il mito della caverna a Quadri per dimostrargli di ricordarsi ancora le sue lezioni ha nell’illuminazione il suo punto forte, con l’ombra di Trintignant che scompare e lui che si rifugia nella condizione di irrealtà della propria esistenza.
Ne Il conformista ci sono già insiti i semi della New Hollywood: dall’eleganza al pathos, dal barocchismo alle carrellate, dall’ambizione al colore; e c’è anche nella mente di Bertolucci la Nouvelle Vague, tanto che l’indirizzo e il numero di Quadri sono quelli che appartenevano all’epoca a Jean-Luc Godard. Una visione cinematogrfica, questa, decadente nella sua visione senza speranza dell’uomo, che si adatta in maniera chirurgicamente finta e nel contempo animalesca all’ambiente che lo circonda; tanto da rendere la caduta del fascismo un evento quasi tragico negli occhi dello spettatore, nonostante l’importanza storica in positivo dell’accaduto, e questo è a causa di come lo vive Marcello, che tradisce l’amico cieco Italo Montanari in uno scatto di rabbia conformista e sadismo che fa venire i brividi anche 46 anni dopo — e per questo finale non dobbiamo ringraziare Moravia, ma la sceneggiatura di Bertolucci, che ha cambiato completamente il finale e che ha aggiunto alla trama il personaggio di Italo, compiendo una scelta narrativa coraggiosa ma sicuramente riuscitissima. Tragedia in bilico tra l’eleganza di Visconti e l’impegno politico di Petri, Il conformista rimarrà, nella storia del cinema italiano, europeo, mondiale, un capolavoro espressivo inimitabile, un tassello chiave nella filmografia di un grande regista (a volte discutibile, ma assolutamente importante) ed un’analisi accuratissima di alcune sensazioni e situazioni che gli esseri umani vivono sulla propria pelle oggi come durante il fascismo, o come quando uscì il romanzo di Moravia, o come quando uscì il film: il non essere adatti agli altri, il non essere politicamente in linea con gli altri e a volte con sé stessi (o con l’illusione di sé stessi), il non essere sessualmente legati a quello che è convenzionale, o normale.
Nicola Settis