L’Italia, ma il discorso si potrebbe estendere a tutta Europa, è un Paese dalla memoria drammaticamente troppo corta. È un Paese nel quale quotidianamente c’è qualche becero populista (di destra, che lo dichiari o meno) che, magari per distogliere l’attenzione dell’elettorato dalle proprie malefatte o dall’evidente crisi del capitalismo, cavalca la paura atavica dello straniero e l’insoddisfazione generalizzata dovuta alla crisi economica mondiale per puntare il dito contro gli immigrati africani o dell’est Europa, accusandoli di “rubarci il lavoro”, di “essere disonesti”, oppure ancor più direttamente di “stuprare e uccidere”. A costo di inventare di sana pianta pur di tirare acqua al proprio mulino, a costo di ignorare come questi spauracchi che ama dipingere nient’altro siano che esseri umani disperati, che tentano semplicemente di costruirsi una nuova vita lontano da una casa ormai invivibile, lasciata con immani sforzi e non certo senza rimpianti, indebitandosi e rischiando la vita, soffrendo viaggi disumani e accettando un futuro di lunga e pericolosa clandestinità.
C’è un intero sistema, nell’Italia di oggi, fondato sul “non sono razzista ma” o sull’ancor più atroce “prima gli italiani”: ci sono partiti politici che esercitano la xenofobia come linea guida principale, ci sono elettori sotto i loro palchetti che non aspettano altro che andare in estasi di fronte ai loro deliri contro chiunque venga percepito come diverso, e ci sono interi organi di informazione a loro asserviti che aspettano con la stessa impazienza di un cane di fronte alla ciotola appena riempita che uno straniero a caso compia un qualsivoglia crimine per poter sparare la sua nazionalità nel titolone e gettare così fango su tutti. Trovando terreno fertile su un’ignoranza scientificamente costruita in oltre vent’anni di disgregazione dell’istruzione e dell’offerta culturale televisiva. Sa essere un Paese profondamente ipocrita e ignorante, l’Italia, talmente abituato a raccontare bugie da non curarsi di quanto sia evidente il torto in ciò che sta dicendo, e dall’altra parte talmente ingenuo e sensibile sui nervi scoperti da credere a qualsiasi cosa senta. Anche quando la menzogna va apertamente contro i dati statistici che vogliono gli immigrati in stragrande maggioranza come volenterosi lavoratori, anche quando furbescamente – e imperdonabilmente – l’ipocrisia glissa sulle storiche colpe coloniali che tutti, volenti o nolenti, portiamo cucite sulla pelle.
L’Italia è un Paese nel quale capita quasi ogni giorno, scorrendo i commenti degli utenti sotto i più drammatici articoli di giornale, di trovare bestie antropomorfe che non sanno più cosa sia l’umanità, pronte a parlare seriamente di affondamento dei barconi o a esultare sguaiatamente quando qualche disperato non riesce a raggiungere le nostre coste. Del resto, l’Italia è sempre stata così, divisa, sospettosa, di indole razzista. Prima contro i “terroni”, ora contro gli “extracomunitari” – che poi, nel grande calderone di “negri” e “zingari”, si finiscono per infilare pure coloro che arrivano da Romania, Slovenia e Croazia, Stati che fanno parte a pieno titolo dell’Unione Europea, e magari questa confusione si manifesta, apice della contraddizione come a voler sfiorare l’assurdo, pure in chi ha qualche figlio ormai volato a Londra, negli USA o in Australia, fuori dai confini nazionali, impiegato all’estero, emigrato per cercare lavoro. L’Italia è un Paese in cui chi arriva è destinato a centri di permanenza temporanei gestiti alla stregua di lager, in cui ci sono violenze fisiche e psicologiche su chi meriterebbe solo comprensione e compassione, in cui vengono stilati fogli di via che riportano come se fossero pacchi postali, anche fisicamente e senza nemmeno più i risparmi spesi per il viaggio, le persone in quelle stesse terre avare di lavoro e di occasioni che avevano dolorosamente abbandonato per seguire il sogno, infranto, di una vita normale.
Ciò che tutto questo sistema pare dimenticare è che, fino a pochi anni fa, i disperati pronti a perdere tutto, indebitarsi, uscire dalla legalità e sobbarcarsi un viaggio pericoloso e totalmente privo di certezze mossi semplicemente dal sogno di una vita migliore, onesta e tranquilla, eravamo proprio noi. Quelli che ora puntano il dito, quelli che vomitano odio, o anche più semplicemente quelli che non si indignano a sufficienza quando sentono impunemente parlare di “ruspe” o di “aiutiamoli a casa loro”. È a queste categorie che Il cammino della speranza, capolavoro del Pietro Germi neorealista datato 1950, disponibile in versione integrale su Youtube e tornato in una sontuosa copia in 35mm ai Mille Occhi di Trieste, andrebbe mostrato ripetutamente e se necessario forzatamente, magari seguendo la cura Ludovico ipotizzata da Burgess/Kubrick in Arancia Meccanica. Al di là delle iperboli polemiche, nelle quali è difficile non lanciarsi con il profondo scoramento che l’Italietta di oggi provoca, Il cammino della speranza dovrebbe essere mostrato nelle scuole, dovrebbe fare parte di ogni palinsesto televisivo, dovrebbe far riflettere, far capire, far sentire in colpa, e non certo giacere semidimenticato nei magazzini delle cineteche. Forse ancor più del conclamato Il ferroviere, altro assoluto capolavoro dell’attore e regista genovese realizzato cinque anni più tardi, Il cammino della speranza è un film di un’attualità sconvolgente, crepitante, forse ancora più urgente in questo periodo buio rispetto ai tempi della sua realizzazione. È un film che soffre e che ama, che sa insegnare (a vivere) senza essere in alcun modo didascalico; è un fondamentale testo politico di umanità e antifascismo, girato non da un Comunista, ma da un socialdemocratico di ferro dichiaratamente saragattiano, perché (anche se non guasterebbe!) non serve abbracciare chissà quale ideologia rivoluzionaria per essere umani: basta ragionare, basta capire le (drammatiche) situazioni, basta avere una coscienza, basta vivere senza egoismi ed egocentrismi.
Nel mettere in scena le peripezie del viaggio clandestino verso la Francia di un manipolo di migranti siciliani rimasti senza lavoro per la chiusura della solfatara di Favara, Il viaggio della speranza è un film commovente, quasi eroico nel suo afflato popolare e nel suo enorme cuore, nella sua bruciante umanità e nel suo profondissimo rispetto per l’individuo, per il proletariato, per il popolo, per la sua cultura, per il suo folklore, per i suoi sentimenti e per i suoi sogni. Liberamente ispirato al romanzo Cuori negli abissi di Nino Di Maria e scritto insieme a Federico Fellini e Tullio Pinelli, Il viaggio della speranza si innesta in un neorealismo fortemente commistionato con il melodramma e con il cinema di genere, lontano dalla rosselliniana “natura viva e pulsante” eppure allo stesso modo crepitante, e lontano pure da quell’ironia sorniona, grottesca e sarcastica che sarà cifra stilistica della commedia all’italiana, di lì a poco codificata, fra Divorzio all’italiana e Signore e signori, proprio da Pietro Germi.
L’abbacinante potenza espressiva sprigionata da Il cammino della speranza sta già nel folgorante incipit di volti e di attesa, già leoniano nei suoi sguardi e sui suoi silenzi, praticamente muto e sottolineato dalle musiche ancestrali e sublimi di Carlo Rustichelli. Germi apre sulle donne, sui bambini, sulla preoccupazione di chi è al di fuori della solfatara e aspetta il ritorno in superficie di chi è inutilmente asserragliato al suo interno. Qualcuno si offre di scendere per trattare, per spiegare come i conti in passivo non possano che portare alla chiusura, di come chiudersi dentro non possa cambiare le cose, e quando il carrello arriva a 400 metri di profondità nella miniera i corpi dei protagonisti emergono stanchi, sporchi e sudati dal ventre di quella stessa terra che non li vuole più, immersi nel buio asfissiante della solfatara, stremati dall’aria viziata ma ancora in piedi. Lottano invano per mantenere il loro (umile) posto di lavoro, lottano invano per poter continuare a vivere nelle loro case, lottano invano per poter continuare a portare cibo sulla tavola dei loro innocenti figli. Fino al ritorno in superficie, al sole, al bianco che quasi abbaglia delle case, alla resa incondizionata, perché rimanere sotto terra avrebbe significato semplicemente, questi figli, non poterli vedere mai più.
Interpretato da un Raf Vallone già Partigiano, poi indimenticata mezzala del Torino, successivamente giornalista e infine attore che in questo film quasi ricalca la sua biografia nel trasferimento della sua famiglia da Tropea a Torino alla ricerca di lavoro, Il cammino della speranza non può prescindere dall’eroe buono Saro Cammarata, vedovo con tre figlie, pronto a guidare la silenziosa rivolta nella solfatara, poi a salvare la vita ai suoi compagni ormai senza più aria suonando il campanello di resa e poi, soprattutto, a condurre l’esodo verso la Francia, magari con tanto di singolar tenzone fra le nevi del confine per amor della bella Barbara che saprà progressivamente dimenticare il bandito Vanni per cambiare vita, farsi accettare dalla comunità, porsi al fianco dell’eroe e delle sue bambine creando una nuova famiglia. Subito dopo la chiusura della miniera, quando il baratro della miseria incombe come una certezza di morte sui paesani che hanno appena perso il lavoro, arriva nel bar del paese a parlare di occupazione e guadagni il mefitico truffatore Ciccio Ingaggiatore, che si offre di condurre sano e salvo in Francia chiunque sia disposto a pagare 20mila lire in anticipo, cifra per raggiungere la quale i migranti sono costretti a rinunciare a tutti i risparmi e magari vendere casa, oggetti e corredo nuziale.
Ingaggiatore, dopo aver spremuto la loro disperazione e la loro miseria fra bugie e illusioni, sarà pronto a tentare di fuggire già a Napoli ma Vanni lo scoprirà e lo riporterà sul treno, e poco più tardi, quando la comitiva impegnata nel difficile viaggio illegale giungerà a Roma, non si farà alcuno scrupolo ad abbandonare definitivamente tutti i truffati – padri di famiglia, sposini al primo giorno di nozze, anziani all’ultima opportunità di vita, donne e bambini – al loro destino con tanto di sparatoria alla stazione, arresto, interrogatori e foglio di via che intima a tutti loro di fare ritorno in Sicilia. Ma, una volta stracciati i documenti, la marcia verso la Francia continuerà guidata da Saro, fra passaggi di camionisti e lavori temporanei offerti in Emilia da proprietari terrieri per sostituire i braccianti (in sciopero), fra l’arrivo dei lavoratori “titolari” che ovviamente accusano i migranti siciliani di essere crumiri e le giustificazioni di chi non sapeva e non voleva certo approfittare della situazione, fra gli inevitabili scontri nei quali una bambina di Saro rimane ferita e l’umanissima intercessione della “crumira” Barbara che riuscirà a fare leva sulla compassione umana degli scioperanti tornando dalla figlia di Saro accompagnata dal dottore che la salverà. Il gruppo, con istanti di uno strazio quasi insostenibile al momento dei lacrimati saluti, sarà destinato a dividersi fra chi rinuncia e torna in Sicilia e chi ancora vuole credere alla nuova vita oltre confine, mentre fra Saro e Barbara nasce un’intesa sempre più forte, che nemmeno il ritorno di Vanni potrà offuscare o negare.
Pietro Germi, genovese con il cuore verso sud, mette in scena un affresco che penetra in profondità nella cultura popolare siciliana, portando sullo schermo la sua mentalità, i suoi ritmi, il suo accento, la sua parlata. A partire, già dai titoli di testa, dalla magnifica Vitti na crozza, musicata per l’occasione in toni lenti e cupi da Franco Li Causi su un anonimo testo popolare di lavoro e ben presto diventata, adattata ad allegra ballata, una canzone tradizionale in cui si riconosce tutta la Trinacria. Dal mosaico umano che si intreccia ne Il cammino della speranza, emerge un paradigma di ieri e di oggi, una cartina di tornasole dell’Italia e di ogni migrazione. Emerge la speranza del titolo, ultima a morire, emerge la volontà di guadagnarsi onestamente il pane, emerge la durezza insostenibile di una realtà annichilente, così come emergono i rapporti umani che nascono, crescono, si cementificano. È nell’unione che sta la forza, è nel remare insieme nella stessa direzione, è nell’aiutarsi a vicenda. È nel rifuggire i Ciccio Ingaggiatore, è nel rifiutare la legge quando palesemente ingiusta, è nell’emarginare e rifiutare i Vanni disposti a tradire i compagni. Se necessario facendosi trovare pronti a rispondere alle sue sfide a lama bianca, in palio la vita di uno o dell’altro, lasciandolo riverso a terra – chi troppo vuole nulla stringe – solo pochi metri prima del confine.
Un confine sul quale l’unica cosa che ancora conta è essere umani, intenerirsi di fronte al sorriso di un bambino, capire e chiudere un occhio sul manipolo di donne, padri, bimbi e vesti stracciate nel gelo delle Alpi innevate che sta superando le linee. Pronti per iniziare la propria nuova vita al di là del filo spinato, dove c’è più lavoro, dove c’è maggiore uguaglianza sociale, dove ci sono ancora speranze. Dove la vita non sarà semplice, ma sarà possibile. Con una nuova lingua, in una nuova cultura, ma accolti come esseri umani e non alla stregua di bestie. Al contrario di quello che accade oggi in Italia, Paese dalla memoria drammaticamente corta, Paese che ha sofferto e che ora vuole negare ciò che per decenni, secoli, ha ricevuto dal resto d’Europa e del mondo. Le guardie di confine che giungono nel finale, si commuovono di fronte alle storie silenziosamente raccontate dai volti dei migranti e li lasciano passare sono quello di cui abbiamo un ancestrale bisogno, cristallizzano quel trasporto emotivo che, nelle questioni internazionali, abbiamo dimenticato per strada obnubilati dal nostro cantuccio e pronti a difenderlo dalle “invasioni” senza nemmeno renderci conto che non esiste alcuna invasione. Siamo sempre stati un Paese dalla fortissima emigrazione interna, siamo un Paese che per decenni è andato in America, siamo un Paese che ancora oggi si svuota dei giovani, perché le opportunità sono altrove e non qui. Il cammino della speranza è un film che fa stare male, tanto sono brucianti la sua lucidità e la sua urgenza. È un film che risveglia ancestrali sensi di colpa, che riflette e fa riflettere sul dramma di chi deve abbandonare la propria vita, che emoziona nella sua narrazione corale e avventurosa, che devasta nella sua sincerità e nel suo intimismo, che commuove nei suoi sentimenti e nell’emotività rigorosa della sua messa in scena. È un film che risveglia la memoria, ricordandoci, senza filtri né interessi populistici di alcun genere, chi siamo e da dove veniamo. E perché oggi, con quelli come noi, uguali a noi, identici a noi, stiamo sbagliando tutto.
Marco Romagna