IL BACIO DELLA PANTERA (1982), di Paul Schrader
Nel trattare Il bacio della pantera, meglio noto con il titolo originale Cat People, remake dell’omonimo film di culto di Jacques Tourneur di 40 anni prima, bisogna tenere conto di due cose: la prima è il fatto che il film, di base, è stato concepito come operazione commerciale richiesta dalla Universal come ri-adattamento per un pubblico moderno di un classico dell’orrore che non doveva essere dimenticato; la seconda è che rimane pur sempre un film di Paul Schrader. Già sceneggiatore di The Yakuza di Pollack e di svariati capolavori di Scorsese (Taxi Driver, 1976; Toro Scatenato, 1980; L’ultima tentazione di Cristo, 1987; Al di là della vita, 1999), Schrader era al tempo alla sua quarta regia. Blue Collar (1978) era stato uno dei film più politicamente complessi del post-New Hollywood, e in quanto tale è stato l’imponente debutto di un regista che con ogni film ha osato reinventarsi, o perlomeno riscriversi; il successivo Hardcore (1979) con le sue ossessioni meta-porno-cinematografiche, e poi il faux-romanticismo noir di classe di American Gigolò (1980), l’hanno consolidato nell’ambiente hollywoodiano come una promessa nel mondo in continuo cambiamento del cinema di genere e dei suoi dintorni. Nonostante ci sia chi potrebbe considerare il film datato al punto di ridere in sala nei momenti più inopportuni, principalmente a causa della colonna sonora in sintetizzatore creata da Giorgio Moroder (con tanto di canzone di David Bowie composta appositamente sul tema portante del film, poi inserita nel suo album Let’s Dance (1983) e anche in una delle scene più belle del film di Tarantino Inglourious basterds del 2009) o a causa degli effetti speciali dei primi anni Ottanta, Il bacio della pantera rimane un interessantissimo trattato sul cinema dell’orrore da un punto di vista carnale e cult, oltre che un esotico viaggio in un senso dell’onirico che nel cinema odierno è andato parzialmente perso, ed è andato perso principalmente perché, nella concezione odierna del sogno nel cinema, quella onirica è un’altra dimensione, un’altra maniera per rappresentare un’altra realtà. Questo anche a causa di grandi registi come David Lynch, che insieme a Schrader compone forse il principale tassello di quest’etica anti-strutturale del cinema americano dopo il Rinascimento Hollywoodiano. Ne Il bacio della pantera, invece, il sogno, più che un proprio spazio nello schermo, ha un proprio spazio geografico interiore, tanto per confondere lo spettatore quanto per rivelargli realtà mitiche e complesse, che necessariamente devono diventare formazione anche per il personaggio, per la precisione la protagonista interpretata da una Nastassja Kinski dalla bellezza impenetrabile che riempie lo schermo, così magnetica forse solo ne Un sogno lungo un giorno, flop di Coppola che uscì lo stesso anno.
Le variazioni rispetto al film originale, nella trama, sono molteplici. Innanzitutto la protagonista non è un’immigrata serba appena aggiunta in America ma che ha già un lavoro e uno spazio di una società, ma è una turista canadese giunta a New Orleans per riconnettersi col fratello che non vede dalla morte dei genitori, dall’orfanotrofio. Si chiama sempre Irena, ed è altrettanto sconnessa dal mondo, dalle convenzioni sociali e dalla propria eredità di cui conosce solo sprazzi. Dei genitori sa poco e della maledizione dalla quale è afflitta sa ancora di meno, ma per istruirla su di essa c’è appunto il fratello Paul, interpretato da un mai così inquietante Malcolm McDowell, più di 10 anni dopo Arancia Meccanica (1971) di Kubrick. La graduale scoperta del proprio inquietante potere e delle sue incestuose conseguenze porta Irena da uno stato di vittima a uno stato di carnefice, con Schrader che analizza brutalmente la sua psiche attraverso estetizzanti stacchi dalla narrazione che alternano espressionismo, surrealismo lisergico, erotismo e un’estetica da videoclip. Schrader, insomma, lavora come sempre per ristrutturazione o destrutturazione: il suo, più che un remake de Il bacio della pantera di Tourneur, è un tributo trasportato in un mondo visuale moderno, rinnovatosi anche da un punto di vista morale, viste le disturbanti e lugubri derive del sistema d’innamoramento e accoppiamento che inquieta il rapportarsi di Irena con il mondo maschile fino alla necessaria conclusione sacrificale. Trattando in egual misura il senso di responsabilità nella tradizione ereditaria e il tabù della verginità femminile nel complesso mondo della sessualità, Schrader alterna una visione completamente innovativa e allucinatoria dell’orrore con la citazione cinefila raffinata. Tra sanguinolenti esplosioni ‘gore’ gremite di tensione e una necessaria fascinazione nei confronti del corpo perfetto di Nastassja Kinski, passa un autobus a interrompere la tensione e subito Tourneur sembra rinascere, a colori, più fantasy che noir, più angosciante che elegante – come anche nella seguente scena della piscina, che ricalca in maniera leggermente più esplicita la scena originale, o nella sequenza della signora che nel bar dice a Irena «mi hermana», con un gioco registico specchiato rispetto a quello del film originale. Surreale e malato, il film non si prende troppo sul serio, anche perché raccontare una storia su una maledizione che concerne uomini e donne che si trasformano in enormi gatti se hanno amplessi con persone non legate a essi per sangue è difficile, e Schrader questo lo sa bene; sa che negli anni ‘40 quando uscì il film originale il cinema era molto diverso, c’era un approccio diverso al dolore, all’orrore, all’ignoto, al paranormale. In quest’ottica più colorata, così sensuale e vertiginosa nel mischiare il piano narrativo del reale con quello irreale del mondo horror, Il bacio della pantera non può che rinascere come crudele parodia di se stesso; non ridicolizzando il film d’origine, ma anzi esplicitandone determinati aspetti e oscurandone altri, cercando una nuova comprensione del male in tutte le sue sfaccettature e in tutti i suoi colori. Alla fine è un film che sembra quasi più prendere dal cinema fantastico di Roger Corman che non dal realismo poetico francese che era l’origine dello stile di Tourneur, e se vediamo le cose in questa dimensione è un film tradizionale ma più estetizzante e plastico, più lirico e tragico.
Cat People è colmo di sequenze memorabili, a partire dal prologo che colpisce per le proprie suggestive soluzioni visive, che compongono un qualcosa di unico rispetto al resto della filmografia di Schrader, un caso solitario di avvicinamento a un mondo visionario staccato completamente sia dal reale sia dal reale del metacinema che spesso è al centro della filmografia del regista. Del resto basti pensare che il film successivo di Schrader sarebbe stato nel 1985, e sarebbe stato il suo capolavoro assoluto, quel Mishima: A life in four chapters, già probabilmente programmato visto che in una scena Irena legge la biografia dello scrittore giapponese, film che cita Terayama e Oshima e osserva in generale il cinema giapponese della Nuberu Bagu da lontano, senza cercare l’assoluto nell’intimo come faceva Ozu ma, bensì, cercando la sindrome di Stendhal nella violenza della distruzione delle barriere teatrali autoimposte dall’uomo. Il bacio della pantera schraderiano è insomma un film iconoclasta, distante dall’idea tradizionale di cinema statunitense, visionario, a suo modo sia massimalista sia minimalista, filosofico, indipendente nel proprio ricercato tentativo di riscoperta della Storia. La grandezza de Il bacio della pantera forse sta proprio in questo: nell’essere un precursore del discorso di Schrader sulla forma cinematografica, mettendo in discussione il classico nella stessa dimensione in cui il film successivo ha rivisitato in chiave etica e poetica lo sperimentalismo orientale. Nonostante la nudità e il sangue che nel 1982 potevano forse parere eccessivi, quello di Schrader è un film profondamente delicato, esteticamente prorompente quanto umanamente fragile nella costruzione dei personaggi e nella decostruzione di ogni immagine, sia essa spoglia o cromaticamente eccessiva fino a bucare la retina con la sua espressività. Coraggioso nella sua perversione, Il bacio della pantera non sarà tra i film più personali del regista, ma rimane comunque un interessante tassello nella sua filmografia pronta sempre a mettere in discussione la forma cinematografica del passato e del presente in un continuo tentativo di costruirne un immaginario e oscuro futuro, cosa che rimane vera sia nei suoi capolavori come Affliction (1997) sia in quelli che sono considerabili film minori come Cane mangia cane (2016): è sempre un autore pronto a tributare preconcetti del cinema uccidendoli con coraggio, stile, forse anche volgarità e provocazione (senza mai essere gratuito), violenza, carnalità e un immaginifico senso di coerenza capace di sconfiggere ogni cadaverico pregiudizio. E, perciò, è un film da recuperare, vedere e rivedere; e in questa dimensione, la copia in 35mm gelosamente conservata dalla Cinématèque Suisse e srotolata dai proiettori del rinnovato GranRex di Locarno, è senza dubbio, con il suo technicolor saturo e i suoi magnifici salti di fine rullo, la maniera migliore per immergercisi.
Nicola Settis