È uno degli horror seminali della prima metà del ‘900, forse il più importante dell’epoca del sonoro. Jacques Tourneur cominciò la propria carriera in Francia per poi passare negli Stati Uniti a girare cortometraggi per la Metro-Goldwyn-Mayer, con They All Come Out (1939) come primo lungo. Ci volle poco tempo per far capire a Hollywood che il suo talento non era cosa da banalizzare, e che il suo stile di regia suggestivo e preciso era unico nel riuscire a compattare coraggiose trame dai fili narrativi sensibili in durate di poco più di un’ora, tanto da influenzare e modificare radicalmente la storia del cinema successivo. Dopo una breve serie di film drammatici e polizieschi (in particolare due con Walter Pidgeon come protagonista nel ruolo del detective letterario Nick Carter: Nick Carter Master Detective nel 1939 e Phantom Raiders nel 1940), Il bacio della pantera diede un inizio più definitivo a una filmografia ricchissima e troppo raramente menzionata, capace di mischiare con impareggiabile fluidità gli insegnamenti del realismo poetico di Carné e Renoir con lo stile più pragmatico e classico dei noir statunitensi che giusto in quegli anni stavano venendo a nascere, come per esempio Il mistero del falco (1941) di John Huston. Con questo approccio a metà fra i due continenti, Tourneur è riuscito a comporre un capolavoro storicamente necessario per la strutturazione di un nuovo genere horror americano: più elegante e psicologico, ma meno terrificante negli eccessi grafici rispetto ai film dell’orrore più legati all’espressionismo europeo. O meglio, l’idea di un Male estetizzato attraverso l’ombra rimane, spalmato sui muri con raffinatezza e mistero, più o meno come poteva essere in Nosferatu il vampiro (1922) di Murnau o come la falce di Vampyr (1932) di Dreyer, ma, più che il sentore sottocutaneo di un doloroso demone esoterico à la Häxan (1922), si tratta questa volta di un qualcosa di interiore che si manifesta verso l’esterno, di una maledizione psicanalitica che si esprime nei confronti dell’altro a causa della corruzione del mondo esteriore. Il film, peraltro, fu il primo di una trilogia horror con la regia di Tourneur e la produzione di Val Lewton, comprendente anche L’uomo leopardo (1943) e Ho camminato con uno zombie (1943).
Il bacio della pantera racconta la storia di Irena, interpretata da Simone Simon che recitò quasi 10 anni prima in un film del padre del regista, Maurice Tourneur, intitolato Donna di lusso (1934), e che lavorò anche per Jean Renoir e Max Ophüls. Irena è un’affascinante disegnatrice di moda serba appena arrivata negli Stati Uniti, e ha un primo contatto con l’architetto navale Oliver Reed (Kent Smith), col quale subito scocca la scintilla, mentre lei fa un ritratto a una pantera in uno zoo. La loro relazione presto è coronata da un matrimonio, a cui seguono i primi tumulti, legati agli apparenti deliri di lei, che dice di appartenere a una stirpe di persone-gatto che, se hanno un amplesso, si tramutano in pantere. A causa di questa convinzione, i due lentamente sembrano separarsi, con lui che approfondisce in maniera progressivamente più sentimentale il proprio rapporto con la sua assistente Alice (Jane Randolph) e lei che si comporta in maniera autodistruttiva nel continuo tentativo di penetrare violentemente nella vita di Alice e del suo psichiatra (Tom Conway). Il film, in fondo, è un mélo allegorico, è una storia d’amore e sofferenza in cui il soave chiaroscuro e il continuo senso d’alienazione si fondono portando in un’osmosi piena di sorprese. Scene oniriche che collimano con l’animazione, inquietanti siparietti con subliminali discussioni freudiane che sfiorano la sessuologia senza mai approfondirla, e poi un paio di scene di culto assolute, diventate ben presto τόποι. La prima è quella in cui Alice teme di essere inseguita e si volta in continuazione, con lo spettatore che sa che dietro di lei c’è Irena anche se Alice non la vede, e all’apice della tensione il silenzio (o meglio il ruggire ferruginoso del felino) si trasforma nell’arrivo di un autobus che presumibilmente la salva dalla morte. È l’invenzione della tecnica del “Lewton Bus”, basata sull’ingannare le aspettative dello spettatore e sull’interrompere il crescendo di tensione con un jump-scare non convenzionale, in cui a spaventare non è un qualcosa di maligno, bensì una banalità quotidiana. Una tecnica che diventerà fondamentale, usata in film di ogni tipo da Nightmare (1984) di Wes Craven a Under the Shadow (2016) di Babak Anvari, da Get Out (2017) di Jordan Peele al remake del film stesso girato da Paul Schrader nel 1982. L’altra scena-culto è quella della piscina, con urla, ombre, gattini spaventati, interruttori che si spengono e si accendono e accappatoi pieni di graffi, sequenza citata in decine di horror in maniera più o meno esplicita, tra il franchise di Poultergeist e quello di Nightmare, tra It follows (2014) di Mitchell e The Neon Demon (2016) di Refn.
La grandezza animalesca de Il bacio della pantera non consiste solo nella sua enorme influenza per la costruzione dell’estetica horror moderna, ma è anche nella ricchezza dei dettagli, nella capacità di rendere felina ogni azione di Simone Simon, nella ricercatezza delle inquadrature (tanto quelle in esterni quanto quelle in interni), suggestive sia nel movimento sia nella staticità. È un film sul fuori campo, fatto di suggestioni non mostrate fino all’ultimo e di un lavoro sul sonoro di straordinaria modernità; è un capolavoro conclamato, con il quale il cinema europeo è entrato definitivamente fra le maglie del genere di Hollywood, modificandone radicalmente, e per sempre, le regole della messa in scena. Rivederlo in pellicola, peraltro in una copia magnificamente conservata, è ancora oggi un vero e proprio shock visivo fatto di luci di taglio, inquadrature espressioniste, giochi di ombre che penetrano l’inconscio. Del film fu girato un sequel nel 1944 da Robert Wise e Gunther von Fritsch chiamato Il giardino delle streghe, con gli stessi personaggi ma un’idea di base completamente diversa, navigando nella psicologia di una bambina sensibile che ha contatti paranormali con Irena. Il succitato remake di Schrader invece si distacca di molto, a livello narrativo, dal film di Tourneur, ma ne è un costante tributo, magnificamente allucinatorio e anni ’80. In ambedue le versioni, Irena è vittima di se stessa e di un passato con il quale non può che fare i conti, è vittima del soprannaturale, di una suggestione che diventa inspiegabile e atroce realtà. La pantera, per tornare donna, deve necessariamente uccidere, deve macchiarsi di ciò di cui la donna ha paura, in un costante cortocircuito fra volontà umana e istinto animale, fino quando ἔρως e θάνατος non potranno che confluire ancora una volta in un bacio proibito, aprendo alla tragedia di un amore reso impossibile dal destino e dal passato. E a Irena, colpevole di essere se stessa, non potrà che rimanere il proprio fato, con il ritorno allo zoo, con la gabbia aperta, con la morte come donna, o forse con la vita come animale.
Nicola Settis, Marco Romagna