TONYA (2017), di Craig Gillespie
Prima di lei, Tonya Harding, solo la giapponese Midori Itō aveva eseguito un triplo Axel in una competizione ufficiale. Nessuna americana ci era mai riuscita, nessuna europea, nessuna occidentale. Come, del resto, sono ben poche donne che lo hanno eseguito dopo di lei. Correva l’anno millenovecentonovantuno e lei, Tonya Harding, con il suo miracolo di coraggio e atletismo si era appena posta sul tetto, era appena entrata a doppia mandata nella Storia: una delle più forti pattinatrici di figura di ogni tempo, forse la più forte. Dal bordo esterno della lama del pattino sinistro al bordo esterno della lama del pattino destro, con in mezzo tre giri e mezzo sospesa in piroetta: volare sul ghiaccio, contro le leggi della fisica e anche contro quelle del fisico, della struttura ossea e della muscolatura. È la perfezione del gesto tecnico, è la giusta spinta data dalla gamba d’appoggio, è lo straordinario equilibrio nell’atterraggio dopo la sospensione. Sono gli applausi, è la medaglia d’oro ai campionati statunitensi, è la qualificazione olimpica in tasca. Ma I, Tonya, spassoso quanto amaro e intelligente biopic scritto da Steven Rogers con stile frizzante e linguaggi mutuati dal mockumentary, affidato alla sapida regia (non è certo semplice, se non altro, mettere in scena lunghi pianisequenza di piroette sul ghiaccio) di Craig Gillespie, interpretato da una sontuosa Margot Robbie tanto convinta del progetto da figurare anche come produttrice e presentato in anteprima alla dodicesima Festa del Cinema di Roma in attesa che LuckyRed lo distribuisca su larga scala, non è certo una storia di vittorie e di esultanze. Perché la vita di Tonya Harding, oggi quarantasettenne in sovrappeso ancora gonfia di rabbia e rimpianti, non è stata una vita di vittorie e di esultanze. È stata una vita, sì, di straordinario talento, di passione, di abnegazione, di competizioni, di medaglie, ma è stata anche e soprattutto una vita difficile sin dall’infanzia, una vita di ingiustizie, di incomprensioni, di ostracismi, di dita puntate contro. Una vita di violenza, una vita di immeritate delusioni, una vita di porte sbattute in faccia, superata da pattinatrici peggiori, meno efficaci, ma più standard, più docili, più attente allo “stile”, e quindi portate avanti e sostenute contro di lei. Fino a quando Nancy Kerrigan, la nemicamica, collega e grande rivale, non si ritrovò con un ginocchio rotto a mazzate.
Quella che ricostruisce I, Tonya è, anche nelle vittorie, la perfetta parabola di una sconfitta, sul ghiaccio come nella vita, tratta da una biografia priva di un padre e con una madre pronta a tutto pur di costruire una grande pattinatrice, mossa da una visione distorta del suo ruolo e sempre pronta, “a fin di bene, per stimolarla” a insultare e umiliare (la piccola, adolescente, adulta) Tonya, a punirle corpo e spirito, a costringerla a duri allenamenti sin da quando aveva 3 anni, a controllarla e a tarparle le ali, a farle pesare i sacrifici fatti per farla pattinare, a dimostrarle giorno dopo giorno la sua incapacità d’amare. Fino a tentare, una volta montato lo scandalo dopo l’aggressione di Nancy Kerrigan, di vendere la propria figlia alla stampa e alla polizia. Come se a lei, Tonya, non fosse bastata la vita da eterna povera, arrivata da classe sociale disagiata e per questo sempre guardata a naso storto in un mondo sportivo dorato e autoreferenziale, fatto di giudici che votano anche (o forse soprattutto) in base a simpatie e “immagini” da portare avanti, e in genere riservato alla borghesia se non all’aristocrazia, non certo alle proletarie e ai loro ostentati “Suck my dick” tuonati in faccia alla giuria. Come se a lei, Tonya, non fosse bastato essere costretta a passare le nottate a cucirsi personalmente i costumi, mentre chi già aveva ricchezze e agio, puntualmente, la scavalcava nei punteggi pur dando vita a esibizioni ben più modeste. Quando a pattinare c’era lei, Tonya, i punteggi erano molto più bassi rispetto alle figure eseguite, così, per partito preso. Per punire il suo aspetto, per punire il suo modo di presentarsi, per punire il suo fisico non certo aggraziato, per punire il suo spirito ribelle e il suo “fucking” facile, senza rendersi conto di alimentare ulteriormente le difficoltà psicologiche e la fragilità di chi era nata e cresciuta nella violenza, prima schiaffeggiata a ogni piè sospinto dalla madre, e poi picchiata da un marito lasciato più volte, ma sempre ripreso fino a quando non è stato troppo tardi. Il mondo del pattinaggio voleva – e probabilmente ancora vuole – ballerine tenere e minute, dai movimenti dolci e morbidi, non certo donnoni potenti dalla fisicità mascolina e dai modi rudi, perfette nella tecnica ma lontane dallo “stile” da ostentare per rappresentare gli Stati Uniti del pattinaggio, e l’aggressione del 6 gennaio 1994 a Nancy Kerrigan dopo un allenamento, con il ginocchio della pattinatrice rivale rotto da una spranga di ferro probabilmente prezzolata dal marito della Harding Jeff Gilooly, è stata l’occasione perfetta per fare fuori per sempre, quale che fosse la reale responsabilità di Tonya, la pattinatrice scomoda, ribelle, pericolosa nel suo turbare lo status quo, le apparenze, “l’immagine”.
Ad I, Tonya, distribuito in Italia semplicemente come Tonya elidendo inspiegabilmente quella prima persona singolare che già dal titolo dona(va) dignità e complessità a un film proprio sul racconto personale della “verità” e sui buchi della versione ufficiale, interessa relativamente come siano realmente andate le cose: il punto non è capire se Tonya Harding e il suo (non più) sposo fossero realmente a conoscenza del piano per aggredire Nancy Kerrigan o se davvero siano stati ingannati mentre credevano, come dichiarato, che l’“attacco” si sarebbe limitato a spaventarla con qualche lettera anonima – il che a livello di etica sportiva non è certo un granché, ma rimane di sicuro un atto molto meno grave rispetto a un’aggressione fisica. Anzi, uno dei migliori spunti di interesse del film, e una delle sue migliori intuizioni di scrittura, sta proprio nel giocare con le incongruenze e le contraddizioni, nel mettere in scena le differenti versioni della “verità”, nel confutare continuamente, fra la ricostruzione degli eventi e delle interviste frontali, le testimonianze. Non solo sul caso Kerrigan, chiaramente centrale in quanto spartiacque di una carriera ben più del leggendario triplo Axel, ma anche sulle varie vicende che hanno puntellato lo scorrere della vita giovanile di Tonya Harding e che hanno portato alla sua sostanziale condanna a morte sportiva, bandita per sempre dai tornei ufficiali di pattinaggio e dichiarata persona non grata dall’intero professionismo del ghiaccio. Dal rapporto burrascoso con la madre al matrimonio e (inutile) divorzio con Gilooly, dall’allenatrice da convincere alla sua cacciata per poi riprenderla dopo la prima delusione olimpica, dal laccio rotto del pattino alle lacrime di fronte alla giuria per poter ri-eseguire l’esibizione, dalla svolta rock imposta al pattinaggio di figura fra la selezione musicale e i costumi ai ripetuti battibecchi con giurie e giurati, l’intera carriera di Tonya Harding viene scandita e “raccontata”, giocando con i linguaggi del documentario e ancor più dello special televisivo, fra cambi di formato, interviste e vere e proprie sospensioni dell’azione, che sfondano la quarta parete per permettere a uno alla volta dei protagonisti di fissare la macchina da presa e ribadire la “propria” verità e la “propria” memoria, precisando, puntualizzando o correggendo quel che sta avvenendo. Nel far questo, I, Tonya è in sostanza Martin Scorsese che incontra i fratelli Coen, trovando una nuova epica nella sconfitta e nella mediocrità, innalzando un inno all’idiozia e all’errore, scandendo una vita tragicomica che sa essere manifesto di un’intera società, di un intero mondo sportivo, di un’intera personalizzazione ed elaborazione del ricordo. La miscela è esplosiva, agrodolce, brillante, (auto)distruttiva, sorprendente e sorprendentemente stratificata. Ben al di là del prodotto medio che vorrebbe essere.
È centrale la parola, in I, Tonya, l’intervista e la confessione, il filtro e la negazione delle parti in causa. C’è quella di Tonya, quella della madre, quella di Jeff Gilooly e quella del suo amico di una vita Shawn Eckhardt – un Paul Walter Hauser che si prende spesso la scena con la sua fisicità incontenibile e con la centralità del suo personaggio, millantatore professionista, sconsiderato combinaguai, immaturo quanto presuntuoso, incapace quanto sfacciato nel negare l’evidenza. E ancora di più, in I, Tonya, è centrale la contraddizione, l’ambiguità, la differenza fra le versioni, il grande mistero intorno a uno dei più grandi scandali sportivi della storia, non solo recente, degli Stati Uniti. Anche se forse, o anzi probabilmente, il vero scandalo non è mai stato il gesto, per quanto sconsiderato, dell’aggressione a Nancy Kerrigan. Il vero scandalo è sempre stata la freddezza del mondo del pattinaggio contro una delle più grandi, forse la più grande, pattinatrice di sempre, solo perché non rispettava l’immagine candida che il pattinaggio di figura pretende(va) di incarnare. Il vero scandalo è stato condannare all’eterna sconfitta e all’eterna ingiustizia un talento cristallino come quello di Tonya Harding perché non era quella “fidanzatina d’America”, perfettina e docile, che l’ipocrisia di quel mondo finto e dorato pretende(va) di portare avanti. Tonya Harding era invece, ed è ancora, una figlia della periferia di Portland. Una donna dura, combattiva, vera, disposta ad appendere i pattini al chiodo per indossare il grembiule da cameriera, e poi pronta a tornare in pista per l’inaspettata seconda occasione nel momento in cui si decise che gli anni pari delle Olimpiadi invernali sarebbero stati intrecciati, e non più corrispondenti, con gli anni pari delle Olimpiadi estive, e che quindi solo due anni dopo il quarto posto ad Albertville 1992 ci sarebbe stata l’opportunità di Lilyhammer ’94. E la fine di tutto, anche del sogno. Quella di Tonya Harding è una storia di profonda ingiustizia, di difficoltà, di grandi sfide, di grandi meriti sportivi, eppure di rare gioie. È una storia paradigmatica di classi e ingiustizia sociale, è un faro puntato sui sotterfugi politici all’interno dello sport, e nel frattempo è un film sulle verità e sulle contraddizioni, sulla memoria e sulle fonti, sulla colpa e sulla sconfitta. Sul punto di vista, che non può che rendere ogni ricostruzione inutile, tendenziosa, di parte, inaffidabile. Il pattinaggio è danza, volo, leggiadria, equilibrio, allenamenti, dolore, freddo, cadute, violenza. Come la seconda vita di Tonya Harding, quella da professionista della boxe. Per continuare a combattere, a usare il proprio corpo e la propria potenza. Per continuare, come fatto sin da bambina, a prendere pugni sulla faccia, dai quali, dopo aver sputato per l’ennesima volta la bocconata di sangue, rialzarsi sempre e comunque, nonostante tutto. Come fanno le vere campionesse (della sconfitta). Come fanno le grandi (anti)eroine. Come l’epica, non solo dello sport, pretende. Altius, citius, fortius, e lei, Tonya Harding, lo era senza alcun dubbio. Ma al volte non basta. E l’unico possibile parziale risarcimento umano per chi è stata calpestata per tutta una vita, per chi forse ha sbagliato e senza dubbio ha pagato, è proprio questo piccolo grande film.
Marco Romagna