I SOGNI NEL CASSETTO (1957), di Renato Castellani
Una locanda da poco, nella Pavia universitaria degli anni Cinquanta, dove si mangia male ma si possono fare incontri fondamentali. Mario e Lucia si trovano per caso, seduti allo stesso tavolo con davanti il medesimo piatto di zuppa. Entrambi sono studenti, lei di chimica, lui a pochi esami dalla fine di medicina. Vengono entrambi da piccoli paesi della Pianura Padana, luoghi bazzicati di rado dalle produzoni cinematografiche non solo del tempo, estendendo verso il nord-ovest della penisola quello sguardo ‘sociale’ che, da circa una quindicina d’anni, già si posava sulle città più grandi. Lucia è ingenua, semplice, ragazza di campagna entusiasta della vita indipendente, fiera sostenitrice della parità fra i sessi e dei cambiamenti sociali, in aperta contraddizione con i principi ereditati dal padre, giolittiano di ferro. Mario e Lucia, con il loro amore, ritengono necessario estirpare la stanca arretratezza borghese che stava, nella seconda metà dei Cinquanta, definitivamente cedendo. Ecco quindi il matrimonio, anticipato rispetto al volere dei genitori, per non dover interrompere gli studi.
I sogni nel cassetto di Renato Castellani, presentato la prima volta alla Mostra di Venezia nel 1957, è un film che nasconde, nelle pieghe del drammone all’italiana, uno sguardo fondamentale sulla gioventù di quegli anni. Testimonia, con lo stile asciutto e la pulizia formale di un Autore ormai pienamente maturo, il passaggio dal conformismo ancora ottocentesco del dopoguerra -i genitori autoritari, la donna asservita al proprio marito, il corredo da cucire, la ‘moralità’ invocata dalle padrone di casa, inguaribili zitelle pugliesi, senza dimenticare le fasce per neonati- alla progressiva libertà che diventerà rivoluzione fra gli anni ’60 e ’70. I giovani diventano finalmente un soggetto sociale, precursori di quel futuro ormai alle porte, ai quali il Cinema rende omaggio.
Come ampiamente dimostrato dalla fondamentale retrospettiva dedicata dal Festival di Locarno 2014 alla Titanus, la produzione italiana del tempo non era certo nuova al melodramma familiare come paradigma sociale nel quale identificarsi e con il quale crescere, individualmente e come nazione. In questo senso, per quanto prodotto da Rizzoli anziché da Lombardo, I sogni nel cassetto si inserisce in quel filone subito successivo al neorealismo, erettosi ben presto a memoria collettiva, del quale Raffaello Matarazzo è stato principale regista non solo con il capolavoro Catene (1949). Al tempo dei Sogni nel cassetto, la ricostruzione dopo i drammi bellici era ormai quasi completata, ma la popolazione stava ancora continuando a creare una propria identità, in lotta contro le ristrettezze economiche e le ormai sempre meno sostenibili imposizioni di una cultura retrograda e superata.
Enrico Pagani e Lea Massari, al pari di Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson diretti da Matarazzo, formano una coppia perfetta sullo schermo, quasi complementare: Mario e Lucia, nella finzione cinematografica, si amano, si sposano, aspettano un bambino. La loro vita procede, forse non perfetta, ma felice. Mario si laurea, diventa un giovane dottore, ottiene un piccolo ambulatorio in provincia. Lucia, nella sua innocente simpatia e nel suo entusiasmo, passa dal matrimonio alla gravidanza, cresce e fiorisce, da ragazza a donna nello spazio di pochi mesi, mentre Pierino, o Pierina, cresce nel caldo del suo ventre. È un personaggio al quale è impossibile non affezionarsi, quello interpretato dalla Massari, ma anche una maschera profondamente tragica, fra i falsi allarmi di parto prematuro e gli immotivati dolori lancinanti. Fra le (non poche) risate di gusto sapientemente inserite nella sceneggiatura, sono costanti gli incontri con presentimenti, paura e simboli di morte, costanti nel serpeggiare sibillini appena sotto la superficie del lungometraggio.
SPOILER ALERT, nel quale verranno rivelati non uno, ma due finali.
E infatti il finale sarà la parte più travagliata del film, con due versioni pressoché opposte, presentate di seguito al Cinema Ritrovato di Bologna. La prima stesura del film di Castellani, dopo varie peripezie diventata quella definitiva, prevede infatti la morte di parto di Lucia, mentre l’inesperto Mario sarà impegnato a far nascere, con l’ausilio del temutissimo forcipe, un altro bambino. Alla gioia del neopapà si sostituirà presto, con inevitabile brivido lungo la schiena degli spettatori, l’amara disperazione per la perdita dell’amore, fino alla decisione dei genitori di Lucia, enorme passo avanti per una vecchia generazione fino a quel momento ancorata alle ferree logiche delle soluzioni “più razionali”, di fermarsi con Mario per aiutarlo a crescere la bambina.
Alla visione di questo finale, alcuni dei produttori iniziarono a storcere il naso, talmente poco convinti dalla morte della protagonista da far riscrivere e girare a Castellani una seconda versione, mettendo come condizione la ‘salvezza’ di Lucia. In questo finale alternativo, dai due giovani un tempo anticonformisti nasce una perfetta famigliola borghese, col papà medico e la mamma, sempre un passo indietro al marito, a badare alla casa e ai figli. Una seconda versione, in realtà, amara ed interessante, seppur per motivi diversi, quasi quanto la prima: alla richiesta, tipicamente democristiana, di indorare la pillola, Castellani risponde da grande Autore, con una velata quanto potente critica proprio a quella borghesia benpensante che gli aveva chiesto le modifiche. Sarà Rizzoli in persona a scartare il finale alternativo, preferendo la prima e nettamente più tragica versione, l’unica visibile fino ad oggi e, forse, la migliore. Ma andrebbero viste entrambe, come due facce della stessa medaglia, per contestualizzarle e rivivere di nuovo, attraverso la Storia del Cinema, la memoria storica del nostro Paese.
Marco Romagna