I RACCONTI DELL’ORSO (2015), di Samuele Sestieri e Olmo Amato
I racconti dell’orso, opera prima che è uno dei quattro rappresentanti dell’Italia nel concorso del trentatreesimo Torino Film Festival, è un UFO, una creatura aliena il cui arrivo sul nostro pianeta filmico era inatteso e si è rivelato miracoloso. Un prodotto fuori dagli schemi che trasuda passione e cinefilia, nato dalla fantasia di due giovanissimi registi e portato a termine anche grazie al crowdfunding (i ringraziamenti in merito occupano gran parte dei titoli di coda). Un film italiano che in realtà parla una lingua tutta sua, sia sullo schermo che dietro la macchina da presa, ed è stato girato nei boschi finlandesi, quanto di più lontano ci possa essere dai paesaggi tipici di molti esordi registici nella terra di Dante. Un traguardo notevole per i due giovani autori, in particolare Samuele Sestieri che, come un novello François Truffaut, è passato dall’altra parte della barricata dopo essersi fatto le ossa come critico cinematografico (anche su questa rivista online).
Qualcuno forse griderà allo scandalo vedendo accostato il nome di Sestieri a quello di uno dei grandi autori del cinema europeo, poiché I racconti dell’orso non è esattamente il nuovo I 400 colpi. Eppure i due sono accomunati, non solo dal background cinefilo, ma anche dall’uso di immagini e cinematografie particolarmente care e da un’energia smaccatamente giovane, per non dire fanciullesca, un’ode all’innocenza e alla meraviglia. Il film è infatti una fiaba di fantascienza dai contorni vagamente onirici (ad introdurre la trama vera e propria è un prologo con una bambina che si addormenta), un viaggio incantato – e a tratti molto incantevole – di una semplicità e una tenerezza a dir poco disarmanti. Un percorso magico dove la sensibilità poetica di Maurice Sendak incontra il creature design di George Lucas e il lavoro sulla luce di Terrence Malick (merito anche del sole estivo finlandese). Ma non mancano altri riferimenti ad amori cinematografici, dallo Skolimowski di Essential Killing agli adolescenti sempre di corsa secondo Sion Sono, con il gusto per la fiaba di Zemeckis e vaghi accenni cyberpunk -se non altro la maschera- à la Tsukamoto. Animazione e videogame – a livello di sensibilità estetica, non di contenuto – si intersecano in un pellegrinaggio fisico e spirituale che non ha nemmeno bisogno dei sottotitoli: le vicende delle due creature venute da chissà dove, che si esprimono con un linguaggio a metà strada fra R2-D2 e i Teletubbies, sono universalmente comprensibili e, nei momenti giusti, toccanti.
Se si può imputare una colpa maggiore al film, è forse quella dell’ambizione eccessiva: quello che poteva essere un meraviglioso corto o mediometraggio è, paradossalmente, troppo lungo pur durando solo 67 minuti. Ma questo è un peccato di gioventù a cui è possibile rimediare con i progetti successivi, che a giudicare dalla padronanza del mezzo cinematografico esibita in questo primo film, e dalla potenza lirica di almeno quattro o cinque sequenze, promettono già grandi cose. Ma soprattutto è un “peccato” assolutamente insufficiente per svalutare l’impatto de I racconti dell’orso, un film – e qui ci scusiamo per l’uso di un aggettivo che in genere ci provoca l’orticaria – necessario. È necessario per come dimostra quanto siano determinanti la passione e la perseveranza nel portare a termine un progetto nonostante la mancanza di mezzi economici e produttivi tradizionali. È necessario per come utilizza in modo abbastanza inedito le potenzialità cinematografiche di un paese solitamente associato al grigiore di Helsinki nei film di Aki Kaurismäki (e non solo). Ma soprattutto è necessario perché ci ricorda che, nel panorama cinematografico italiano, esiste ancora la possibilità di deviare da certi sentieri ormai troppo familiari e puntare su qualcosa di nuovo. Nella fattispecie, un prodotto universale e al contempo non per tutti i gusti (alla proiezione stampa torinese ci sono state delle fughe premature dalla sala, a quella ufficiale invece un lungo e convinto applauso, ora ci interesserebbe conoscere le reazioni di un pubblico di infanti), la cui visione è consigliata a chiunque abbia in mente di darsi al cinema a qualunque costo. Perché questo è ciò di cui abbiamo bisogno: cineasti capaci di pensare in grande nel loro piccolo, e farci sognare insieme a loro.
Max Borg