È sempre molto complicato approcciarsi a uno dei maggiori capolavori della Storia del Cinema. Perché su Ugetsu Monogatari (1953), meglio conosciuto in Italia come I racconti della luna pallida d’agosto, è già stato detto e scritto di tutto: è un film imprescindibile, immancabile, fondamentale, è un film che ha cambiato vite e fondato immaginari, è uno storico caposaldo per intere cinematografie, è un manuale di Cinema e di vita che non ci si stanca mai di consultare. Si tratta forse del lavoro più noto di Kenji Mizoguchi, girato dal leggendario regista nipponico nel 1953 e tornato da Venezia con il Leone d’Argento, oggi restaurato dalla Film Foundation di Martin Scorsese e ripresentato al Cinema Ritrovato di Bologna dopo la recente prima in Cannes Classics. Con una proiezione, va detto, in DCP 4K, ma i restauratori ci hanno tenuto a precisare di avere stampato una copia di conservazione in 35mm, rivelando una cura filologica e un sincero interesse per la durata sempiterna dell’opera per cui non possiamo che esultare. Ugetsu Monogatari, al contempo summa e oggetto alieno nella sterminata filmografia di Mizoguchi, è un film che apre al fantastico e al fantasmatico per parlare di valori, errori e rimorsi a un Giappone ancora sperduto e in rifondazione: erano anni ancora drammaticamente vicini alle stragi nucleari di Hiroshima e Nagasaki, l’arcipelago aveva appena visto infrangersi nell’orrore dei funghi atomici e perso per sempre i raggi del Sol Levante Imperiale, ed era quindi assoluto dovere del cinema pescare nell’immaginario e nel passato per prendere una netta posizione riguardo il futuro, soprattutto in un periodo in cui, sull’onda dei successi veneziani di Akira Kurosawa e, appunto, di Kenji Mizoguchi – ma non possiamo tenere fuori dal discorso “il più giapponese di tutti” Yasujiro Ozu – la settima arte nipponica stava iniziando a sbarcare e ricevere consensi pressoché unanimi anche in Europa e negli Stati Uniti.
Nelle vicende messe in scena con il solito stile sublime, elegante e minimale di Mizoguchi, il vasaio Genjuro diventa avido al punto di dimenticare la propria moglie Miyagi e il pargoletto per lanciarsi nelle braccia di un fantasma, mentre suo fratello Tobei è talmente ossessionato dalla voglia di diventare un samurai per farsi bello agli occhi della moglie Ohama da abbandonarla a sua volta per ritrovarla prostituta in un bordello. Ugetsu Monogatari è un’opera morale che trasuda classe cristallina e straziante poetica, nella quale la vanagloria, l’avidità e l’ambizione sfrenata portano inevitabilmente alla distruzione, al dolore, al rimpianto, al pentimento, alle lacrime, mentre ogni pianosequenza e ogni movimento di macchina sono perfettamente funzionali alla narrazione e alla lirica. Si pensi, ad esempio, al ritorno a casa di Genjuro, con una doppia panoramica circolare che prima mostra la casa semidistrutta e vuota per poi ritrovare il protagonista fuori dalla finestra e, senza stacchi, farlo rientrare dalla porta questa volta con la casa arredata e la moglie ad attenderlo, come una figura sospesa fra i fantasmi del passato e l’illusorietà del sogno prima della rivelazione più drammatica. Oppure si pensi all’elmo vuoto pronto a riempire lo schermo, alle infinite profondità di campo, alla bellezza quasi insostenibile delle immagini in barca in mezzo alla nebbia, al dolore ancestrale di un bambino che porta il cibo sulla tomba della madre, seduto vicino a un padre per sempre colpevole di non essersi saputo accontentare fino a perdere tutto. Colpevole, e al contempo vittima: vittima della seduzione del denaro, vittima della seduzione delle donne, vittima della seduzione della gloria personale. Ma mai più solo, fino all’intensità inusitata di un finale devastante nel quale la restaurazione è essa stessa una nuova mancanza, atavica e soffocante.
Mizoguchi trovò nei racconti di Akinari Ueda, conditi con accenni di Guy de Maupassant, il soggetto da cui trarre Ugetsu Monotagari: il film è ambientato nel sedicesimo secolo, ma non è certo casuale il fatto che apra e chiuda sulla realtà più pura di un Giappone contadino e al lavoro, il Giappone che si stava rimboccando le maniche per vivere la propria contemporaneità. In quei movimenti di macchina c’è uno sguardo sul mondo e il ritorno al “vero” tangibile, c’è un anello di congiunzione fra la più pura tradizione nipponica e la necessità di iniziare a guardare verso occidente, c’è il bisogno ancestrale di riconsiderare e riconsiderarsi come unico modo per ricominciare. Tutto, in Ugetsu Monogatari, è fragilità umana, è fallibilità anche della tradizione, è tragico errore dal quale non si può tornare indietro: il rischio di morire durante la razzia dell’esercito per cucinare durante la notte tutti i vasi prodotti, la decisione del vasaio di lasciare moglie e figlio al loro tragico destino su una sponda del fiume per paura dei pirati, l’avidità del fratello nel volersi procurare l’armatura e la lancia, oppure nel rubare la testa del generale che lo farà incoronare samurai. Ma anche l’illusorietà di una storia d’amore tanto sbagliata da essere impossibile e figlia di uno spettro ammaliatore da combattere con preghiere a Buddha e sutra sulla pelle, lo stupro di Ohama mentre cercava il marito perso dietro ai propri sogni, la notizia della tragica morte di Miyagi, la rinuncia di Tobei al proprio agognato e raggiunto balzo in avanti sociale nel momento in cui capisce che l’unica cosa che conta è l’amore della moglie. Mizoguchi è secco e deciso nel tracciare le parabole dei protagonisti e nel fornire loro i rispettivi tragici epiloghi, eppure non perde mai il sentimento, non perde mai la centralità dell’uomo, non perde mai la propria poetica straziata e straziante. Ugetsu monogatari è un film che, sempre più a ogni visione, scorre sotto la pelle, entra nel sangue, ferisce e fa star male di un dolore sublime. È un film sui sensi di colpa, sul rimorso, sull’invasività di un sogno troppo grande, sull’avidità e sulle sue derive. È un film unico e definitivo, fra i massimi capolavori mondiali di sempre. Un film del quale non si possono che scrivere banalità, perché nessuno scritto potrà mai nemmeno lontanamente avvicinarsi alle emozioni infinite di una visione. Soprattutto su grande schermo.
Marco Romagna