Cinema formato haiku. Nessuno nell’industria animata giapponese
ha mai avuto il coraggio di cimentarsi in simili imprese, tranne una persona.Mario A. Rumor, The Art of Emotion. Il cinema d’animazione di Isao Takahata.
Coraggio, coerenza e grandi ambizioni non sono mai mancate a Isao Takahata, regista ma non animatore. Ecco, siamo già scivolati verso alcuni tratti fondamentali dell’altra metà del miracolo ghibliano (e qui, tra l’altro, andrebbero aperte parentesi molto più ampie di questa, ma ci limiteremo per il momento a sottolineare la complementarità ma anche l’estrema vicinanza dei due autori\fondatori dello Studio Ghibli, amici e nemici, maestro e discepolo, intellettuale e Re Mida del box office). Cerchiamo di procedere ordinatamente: il coraggio, mescolato a un po’ di sana follia. Perché, sì, un po’ folli bisogna essere per sfidare la Tōei Dōga a metà degli anni Sessanta, mettendosi alla guida di un progetto tanto meraviglioso quanto inevitabilmente fallimentare: La grande avventura del piccolo principe Valiant (Taiyō no ōji – Horusu no daibōken, 1968) segna la prima frattura tra Takahata, l’industria degli anime e il pubblico. E indica anche, decisamente ante litteram, la strada da percorrere per arrivare a quella sorta di Brigadoon che è (stato) lo Studio Ghibli. Un’indicazione non solo poetica e politica, ma anche squisitamente estetica, di linee, forme, cromatismi, fondali e character design. Tutte questioni messe su fogli e rodovetri dai vari Yasuo Ōtsuka, Yasuji Mori, Yōichi Kotabe e ovviamente Miyazaki. Non da Takahata, mente pensante slegata dal fare animazione. Il coraggio e la follia, mescolati a una solidissima coerenza, sono anche alla base del fluviale documentario The Story of Yanagawa’s Canals (Yanagawa Horiwari Monogatari, 1987), centosessantasette minuti che di animazione hanno solo una manciata di secondi. Un altro tonfo fragoroso dal punto di vista economico. Insomma, coraggio, coerenza e anche grandi ambizioni non necessariamente ancorate alle attese spettatoriali, come per l’affresco storico-politico in salsa fantasy Pom Poko (Heisei tanuki gassen Ponpoko, 1994) o per l’abisso tragico di Una tomba per le lucciole (Hotaru no haka, 1988).
Da questi film, ma anche dai tratti comico-caricaturali di Jarinko Chie (1981) e dai fondali pittorici di Goshu, il violoncellista (Sero hiki no Gōshu, 1982), prende forma l’animazione paradossale de I miei vicini Yamada (Hōhokekyo tonari no Yamada-kun, 1999). Cinema formato haiku, per riprendere la parole di Rumor. Basterebbe l’incipit, questo inizio su una tavola vuota, bianca, per cogliere la complessità della filmografia di Takahata, per intuirne la portata anche sul piano puramente tecnico-artistico. Facciamo un deciso balzo in avanti, a un altro incipit: Il ragazzo e l’airone (Kimi-tachi wa dō ikiru ka, 2023) di Miyazaki si apre con una sequenza che riecheggia il contesto storico di Una tomba per le lucciole e alcune suggestioni grafiche de La storia della Principessa Splendente (Kaguya-hime no monogatari, 2013), opera mondo che deve molto proprio ai buffi Yamada. L’animatore Miyazaki cita, omaggia, ricorda il non animatore Takahata, prendendo in prestito alcuni tratti del suo stile. Ma lo stile di Takahata era in realtà in continuo divenire, fluttuante, legato al talento dei suoi collaboratori, a suo modo più libero, anche di sbagliare, di prendersi libertà, di deragliare dai binari della perfezione ghibliana\miyazakiana. Nel bianco, nell’apparente vuoto de I miei vicini Yamada prende forma l’animazione mirabolante della Principessa Splendente, altra opera che ragiona sul senso dell’animazione, sulle sue forme, sulla non necessità di riempire tutto. Tra l’altro, ma è ovvio, questo che definiamo impropriamente vuoto (un po’ come il fuori campo) è parte integrante dell’immagine, della narrazione.
Qualche anno prima del lungometraggio collettivo Winter Days (Fuyu no Hi, 2003), orchestrato da Kihachirō Kawamoto, Takahata guarda a una forma affine di narrazione breve, stilizzata, immediata: lo yonkoma manga. Quattro vignette, una striscia, di solito tra il comico e il satirico. Impossibile farci un film! Sarebbe come fare un film con le sole pagine di un fumetto – in tal senso, è obbligatorio il recupero dell’altrettanto impossibile Band of Ninja (Ninja Bugeichō, 1967) di Nagisa Ōshima, girato sulle tavole dell’omonimo manga di Sanpei Shirato. Takahata sceglie l’ironia del mankaga Hisaichi Ishii, le sue strip umoristiche, queste storie fulminee che una dopo l’altra ci restituiscono un ritratto della società giapponese contemporanea, tra risate e commozione.
L’operazione è persino ingannevole, visto che l’apparente semplicità del tratto nasconde sperimentazioni tecniche e aperture inedite per lo Studio Ghibli: siamo infatti nell’inesplorato territorio della full-digital animation – e qui la mente corre al cortometraggio Boro the Caterpillar (Kemushi no Boro, 2018) di Miyazaki, esempio lampante di come le nuove tecnologie possano essere impiegate e soprattutto piegate al volere degli animatori tradizionali. Takahata usa il digitale per riprodurre gli effetti dell’acquerello, (ri)trovando così le suggestioni estetiche dell’animatore canadese Frédéric Back, una delle sue stelle polari. Alla fine saranno centosettantamila disegni per un flop. Ma, come direbbe Cocciante, era già tutto previsto…
Il fallimento commerciale e il difficile rapporto con gli otaku e persino con i più sfegatati fan dello Studio Ghibli è una nota a margine rispetto alla portata de I miei vicini Yamada, lungometraggio destinato a essere minore e al contempo straordinario. La vicinanza temporale col debordante successo de La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi, 2001) rende ancor più evidente il senso della filmografia di Miyazaki, pilastro economico dello Studio Ghibli, e il valore artistico, culturale e politico delle opere di Takahata, capace come gli Yamada di avanzare anche – e forse soprattutto – controvento.
La storia, ma sarebbe meglio dire le storie, della famiglia composta dai genitori Takashi e Matsuko, dai figli Noboru (13 anni) e Nonoko (7 anni), dalla nonna materna Shige e dal cane Pochi segue un andamento fluttuante, sia nelle scelte grafiche e cromatiche sia in quelle narrative, tra blocchi tematici e quadretti ridotti al minimo. Un mosaico in cui brillano anche le brevi sequenze di raccordo con elementi che nascono in una striscia per poi guidarci verso la successiva, come il cinghiale danzerino o l’uccellino canterino che tra i ciliegi ci porta al titolo di testa. E poi le macrosequenze più ampie, ariose, che finiscono per riempire il quadro di colori e persino azione: ad esempio, la discesa in bob a due di Takashi e Matsuko, con la pista che diventa la loro torta nuziale, aprendo poi al mare calmo e limpido solcato dall’ennesima metamorfosi in barca a vela, fino a una tempesta prodigiosa che omaggia immancabilmente La grande onda di Kanagawa di Hokusai e poi, via via, al campo di cavoli, alle cicogne in volo, alla nascita di Noburo da una pesca gigante come Momotarō e la piccola Nonoko, ça va sans dire, che viene al mondo come la principessa Kaguya. Un film nel film. Un cortometraggio mirabolante, che inizialmente era l’idea del produttore Suzuki: ma ancora una volta, sempre immancabilmente, prevarrà il coraggio un po’ folle di Takahata. Il corto diventerà lungo.
I miei vicini Yamada tratteggia con ironia ma anche con sguardo realistico e ponderato la grande parabola della vita, della famiglia, l’incedere del tempo, l’infanzia e l’adolescenza, le piccole e grandi sconfitte, i dolori, le gioie, i sogni. Le case e le macchine appena abbozzate, lo stile deformed, la stilizzazione come mantra si accompagnano a slanci quasi realistici e tutto sembra cogliere, in ogni istante, la giusta misura. Mai di più, mai di meno, come se a Back si sommassero John Hubley e persino Don Hertzfeldt, in un cortocircuito di perfetta imperfezione, di animazione tanto limitata quanto certosina. Fino a Que sera, sera, quasi un manifesto cantato e disegnato del nostro destino, anche quello dello Studio Ghibli.
Enrico Azzano