I GIGANTI (2021), di Bonifacio Angius
«Uomini senza fallo, semidei
che vivete in castelli inargentati
che di gloria toccaste gli apogei
noi che invochiam pietà siamo i drogati.
Dell’inumano varcando il confine
conoscemmo anzitempo la carogna
che ad ogni ambito sogno mette fine:
che la pietà non vi sia di vergogna.
Banchieri, pizzicagnoli, notai,
coi ventri obesi e le mani sudate
coi cuori a forma di salvadanai
noi che invochiam pietà fummo traviati.
Navigammo su fragili vascelli
per affrontar del mondo la burrasca
ed avevamo gli occhi troppo belli:
che la pietà non vi rimanga in tasca».Fabrizio De André, Recitativo (due invocazioni e un atto di accusa)
Questa volta non c’è spazio per alcun angelo custode, nel cinema di Bonifacio Angius. C’è solo una stella cometa, ma è tanto repentina nel suo passaggio che probabilmente nessuno, nemmeno chi giura il contrario, riesce davvero a vederla. C’è invece il più lancinante dolore, ne I giganti, c’è la disperazione più autodistruttiva, c’è l’innescarsi improvviso e inevitabile della violenza e della più implacabile tragedia. Sta già tutto nell’intensità quasi insostenibile di uno sguardo, nel guardarsi allo specchio strafatto e farsi schifo di Massimo, personaggio straordinariamente interpretato dallo stesso regista. Un uomo sconfitto dalla vita, depresso senza via d’uscita, incattivito dall’esposizione delle proprie fragilità fino a ritrovarsi cinico, maschilista e misogino per fallo di reazione. Un uomo ottenebrato dai pensieri sul suicidio per vendetta, senza più nemmeno i soldi per la corriera ma con ancora in tasca un po’ di speed e una rivoltella. Un’anima in pena, consapevole «più coglione del mondo» nel suo sparare a un quadro, che non può che ritrovarsi a intersecare amaramente la sua traiettoria con quelle di altre anime in pena, con il volontario scopo di stordirsi fino a farsi del male. Si ritrovano in un casolare isolato fra i paesini della Sardegna, I giganti. Cinque amici, o forse cinque differenti sfaccettature della stessa depressione, cinque diversi elementi dello stesso polittico di solitudine, cinque diverse prospettive da cui guardare la fragilità dei rapporti umani, che si danno appuntamento per una personalissima grande abbuffata di alcool e di droghe. Perfettamente organizzati fra bottiglie, pipette, stagnola, oppio, speed, eroina e cocaina, da prepararsi rigorosamente «con il bicarbonato, altrimenti sa di ammoniaca», mentre le pupille progressivamente si dilatano, gli occhi si fanno spiritati e i corpi rigidi e sudaticci. C’è Stefano, padrone di casa silenzioso e arrendevole, che ha perso anni prima in un bowling ogni ragione di vita e non ha mai nemmeno provato a reagire. C’è Andrea, che al contrario dissimula le sue lacerazioni in una falsa esuberanza, tanto ossessionato dal sesso da rivelare in filigrana tutti i suoi problemi con le donne. C’è Piero, ammanigliato fra politica e finanziamenti illeciti ma troppo codardo per prendersi una responsabilità, e c’è suo fratello Riccardo, outsider dall’ottima parlantina e dal buon sangue freddo nello smascherare le altrui psicologie e nel dire le cose in faccia – «L’ultimo colpo sarà per te stesso» –, ma troppo innamorato del crack per non cadere nello stesso vortice di offuscata autodistruzione. Personaggi furibondi negli scatti di rabbia proprio perché perfettamente consapevoli delle proprie fragilità e impotenze, negativi ma al contempo puri e struggenti nell’ostinarsi nei propri errori e nella propria fallibilità. Ultimi impulsivi e dinamitardi, pienamente lucidi nella contezza autolesionista della propria disperazione, che prendono il nome dalle argille nuragiche di Sos gigantes de Monti Prama ben consci di come il loro apparente edonismo nient’altro sia che il tentativo di trovare un rifugio nella passiva accettazione della propria mediocrità, o più probabilmente il loro volontario procedere verso l’inevitabile baratro.
È un film di presenze ma forse ancor più di assenze, I giganti. Un film per molti versi pandemico, in cui è l’isolamento – geografico del casolare sperso fra le campagne sarde, ma anche personale di chi nello sfilacciarsi dei rapporti umani continua indefesso il proprio discorso senza riuscire più a comunicare con gli altri – il vero punto di rottura. Non è certo un caso in tal senso che, in un kammerspiel dal sapore western con sfumature di thriller psicologico, filosofia del quotidiano e melodramma, al di là della breve e degradante (per i maschi che si spogliano e che sparano, s’intende) visita di due escort e di un paio di flashback necessari a caratterizzare i personaggi, vengano messi in scena quasi solo uomini. Una scelta che, nella messa a nudo della più drammatica disperazione maschile per la mancanza dell’amore, nel fallimento sempre più autolesionista e oscuro dell’uomo ferito, serve a ribadire la centralità assoluta della donna. Come a dimostrare ferrerianamente che il maschio, da solo, nemmeno può esistere se non nella propria friabile e stupida insulsaggine, nel proprio avvelenato piangersi addosso, nel proprio putrido e consapevole rovinarsi e incattivirsi, mentre il vero ruolo da protagonista rimane quello di chi non c’è (più), una ex-fidanzata che ha scelto un altro, una ex-moglie che non vuole mai più vedere quello che era il marito, una figlia portata via violentemente dalla madre. Una serie di assenze che sono rimaste come una fantasmatica presenza, come un’ossessione, come un trauma mai metabolizzato, come una stella che è impossibile veder cadere, come una tossicodipendenza da cui è impossibile liberarsi. O forse come un grido dalla finestra contro un corteo e una banda che forse nemmeno esistono, come un mambo impolverato da ballare e smascellare insieme alla puntina del giradischi, come un ritrovarsi sul divano smascherati nelle proprie contraddizioni più profonde e dolorose, «sei un bambino scemo o un adulto scemo?». Del resto anche il definitivo detonatore del dramma è una presenza che diventa assenza, un corpo oramai senza vita che la mattina non si alza più dal letto, incapace di raggiungere i monologhi che si intrecciano senza nemmeno più ascoltarsi dei sempre più spiritati e soli compagni di sventura. Grida che si perdono e rimbombano nel fuori campo, mentre la macchina da presa del sassarese Bonifacio Angius, regista, sceneggiatore, fotografo, interprete, montatore e persino co-compositore delle musiche di questo suo indipendentissimo e straordinariamente maturo terzo lungometraggio presentato nel concorso principale di Locarno74, rimane pudicamente in corridoio ad ascoltare e soffrire la sincerità del dolore. Fino agli ultimi due inevitabili colpi di pistola che trasformano in sangue la profezia e spazzano via ogni possibile premeditazione, alle ultime mani strette intorno al collo, all’ultima porta che si apre senza che nessuno ci creda, perché credere vorrebbe dire accettare il fatto di essere già morti. Eppure non c’è alcun nichilismo, nel (grande) cinema di Angius, né tanto meno alcun tipo di giudizio o moralismo. C’è solo una straziata e amarissima umanità fatta di pregi e di difetti anche feroci, una personalissima e devastata sofferenza che lancia il suo ruggito straziato e tracima nella febbrile spontaneità dell’arte. Una riflessione, intensa, dolorosa e insanguinata, sull’essere umano e sulla società che sta cambiando. Ecce homo, avrebbe detto qualcuno. E chissà che alla fine del tunnel (suicida, o forse di catarsi cinematografica), per l’uomo non ci sia proprio l’unica possibilità di una nuova luce.
Marco Romagna