9 Agosto 2024 -

I FRATELLI DINAMITE (1949)
di Nino Pagot

Era prima di tutto un grande sogno pionieristico, la Pagot Film. La magnifica utopia di Giovanni Pagotto detto Nino, disegnatore e fumettista già dagli anni Venti per il Corriere dei Piccoli e dalla metà degli anni Trenta assiduo collaboratore di quel Federico Pedrocchi autorizzato personalmente dallo stesso Walt a realizzare in Italia e per il mercato italiano storie ambientate nell’universo immaginifico della Disney, che insieme al fratello minore Antonio/Toni ebbe l’idea di fondare nel 1938 il primissimo studio italiano in cui realizzare, in totale e assoluta indipendenza, disegni animati. Un’attività che, negli anni, avrebbe dato vita a stelle assolute (non solo) di Carosello come Calimero e Grisù il draghetto, e che sarebbe poi diventata ancor di più una questione di famiglia coinvolgendo successivamente anche i figli di Nino, Gina e Marco, che a sua volta nei primi anni Ottanta, una decina d’anni dopo la morte del capostipite, sarebbe riuscito a convincere la Rai ad avviare la co-produzione con la Tokyo Movie Shinsha per realizzare la serie Il fiuto di Sherlock Holmes scritta e (parzialmente) diretta dall’allora (qui in Europa) semisconosciuto Hayao Miyazaki, che nel ‘92 ricambierà la precoce considerazione chiamando proprio Marco Pagot l’aviatore italiano protagonista del suo Porco Rosso. Ma non divaghiamo troppo con l’aneddotica, anche perché non servirà a creare quell’industria d’animazione che l’Italia, al di là di pochi coraggiosissimi autori, non ha mai avuto voglia di sviluppare e consolidare. Concentriamoci invece sugli albori, su quel Tolomeo iniziato nel ’42 dai fratelli Pagot(to) con l’idea di farne un cortometraggio, ma progressivamente allungatosi – passando per la bomba che nel ’47 distrusse i locali della Pagot Film, ma anche per la preziosa collaborazione nella squadra animatori di un giovanissimo Osvaldo Cavandoli che di lì a poco avrebbe ideato Mr Linea – fino a diventare I fratelli Dinamite, presentato nel 1949 nella stessa edizione di Venezia in cui venne mostrato per la prima volta La rosa di Bagdad di Anton Gino Domeneghini con cui Pagot da sempre si gioca, o forse sarebbe meglio dire condivide, la primogenitura sul lungometraggio d’animazione italiano. Sarebbe infatti una mera questione di lana caprina – il fatto che I fratelli Dinamite sia stato dichiarato e registrato in SIAE quasi due anni prima de La rosa di Bagdad non vuole dire nulla, solo che i Pagot hanno presentato la pratica a produzione in corso e Domeneghini a lavoro finito – intestardirsi a cercare di capire quale fra i due film, che oltre ad aver compiuto praticamente a braccetto i primissimi passi animati del Belpaese sono anche i primi due film italiani realizzati in Technicolor, sia stato ideato e cominciato prima: quello che conta è anzi la loro quasi completa contemporaneità, il loro costituire un dittico di necessità espressiva, che la piccola grande rivoluzione di Biancaneve e i sette nani aveva finalmente liberato tanto della necessità di attori e set quanto della complessità delle tecniche con cui animare “dal vivo” in passo uno. Basta(va) immaginare direttamente su carta e su lucidi, disegnando e colorando all’istante l’immagine finale, senza limiti né necessità di intermediari. Che fosse la storia di un piccolo contadino destinato a diventare re, o meglio Califfo, o che fosse quella dei tre monelli naufraghi e poi (giammai) civilizzati Din, Don e Dan, cresciuti prima dagli animali di un’isola deserta e poi da una vecchia zia, che non smettono nemmeno per un momento di creare scompiglio ovunque mettano piede. In un crescendo di gag irresistibili, di piccoli e grandi momenti di divertimento, di reale e spensierata anarchia – dei personaggi, ma anche narrativa, stilistica, produttiva. E di inusitato coraggio, nell’avere una visione impossibile e nel portarla a termine.

È per questo che conta poco o nulla che, a posteriori, I fratelli Dinamite possa mostrare qua e là qualche sprazzo delle sue fragilità produttive, la sua genesi lunga e travagliata, i progressivi cambi di idea che possono portare a qualche incoerenza stilistica nella qualità dei fondali, ora magnificamente curati nel dettaglio e ora evidentemente più semplici e sbrigativi, o nel character design che solo andando avanti con il lavoro aggiunge linee più nette alle rotondità iniziali. Così come conta poco o nulla che nei passaggi fra i quattro sostanziali episodi di cui si compone il film (il naufragio e l’isola in cui trovare mutuo soccorso con la Natura, il viaggio pinocchiesco fino all’inferno in cui saperne una più del diavolo fino a ingannare e sconfiggere perfino Belzebù, il concerto da interrompere per mettere a soqquadro un intero teatro dell’opera e il gran finale in cui riscattarsi come piccoli eroi al Carnevale di Venezia) non sia difficile trovare (più che) qualcosa di brusco, oppure, specialmente nella prima parte con gli animali, che la scelta grafica di colori così rigorosamente sgargianti e di linee così smaccatamente curve e arrotondate (tanto più pensando a come diventeranno maschere oblunghe nel successivo Carnevale veneziano) non sempre siano funzionali al fotorealismo e alla fluidità dei movimenti di ciò che si vuole rappresentare. Semmai può essere interessante ragionare su come il film di Nino (e Toni) Pagot, proiettato nella sezione Kids annessa a Locarno77 in un Teatro Kursaal pieno di bambini ipnotizzati da immagini senza tempo, incapaci di invecchiare nonostante i loro settantacinque anni, sia sempre riuscito a conservare intatta la sua unicità folleggiante e anarcoide, il suo sacrosanto diritto di fare di testa propria e magari di cambiare più volte strada in corso d’opera, nonostante i debiti che non fa nulla per nascondere nei confronti di primi lavori della Disney. Dalle foreste e dalle presenze fantasmatiche che sembrano quasi mutuate da Biancaneve (della quale negli stessi anni Pagot stava realizzando per il ramo italiano della Casa del Topo più d’una avventura spin-off a fumetti) alle scintille ed esplosioni (non solo) di musica al concerto che richiamano Fantasia e in particolare L’apprendista stregone, passando per gli angioletti che si nutrono nella Pastorale e per le infinite e dichiarate analogie con Pinocchio sia del secondo episodio (i pagliacci che rapiscono i bambini da scuola esattamente come il Gatto e la Volpe, il circo come Paese dei Balocchi, il carretto e le gabbie con cui portare via i giovani discoli, e non certo in ultimo il Demonio-Mangiafuoco che li trasforma in animali, a sua volta da ingannare con le stesse note de ll pifferaio magico passando per l’intuizione di inchiodare un micio sulla tastiera di un pianoforte), sia del quarto e ultimo, con la ricerca sottomarina con tanto di pietra al collo e dialoghi con i pesci nella Laguna di Venezia che ha decine di alleli in comune con la ricerca di Geppetto già inghiottito dalla Balena. Elementi di una derivazione per molti versi inevitabile, che tuttavia, come si diceva, Pagot utilizza come semplici pennellate su una tela personalissima e assolutamente nuova, per un cinema e per un’industria (per l’Italia del tempo, ma non solo) del tutto inediti, e per una sfida tecnica e artistica di cui scrivere e al contempo divertirsi a trasgredire le regole e ogni possibile schema. Continuando a perfezionarsi negli anni con lo stesso identico spirito autarchico e ribelle di Din, Don e Dan, pestiferi e indemoniati quanto si vuole, ma in definitiva capaci solo di creare bellezza. Pronti a scattare per salvare la mucca che li ha accuditi e nutriti, «impacchettata» e destinata alla macelleria, a costo di farsi prendere al suo posto; pronti a cascare nella trappola circense che fa marinare la scuola ma al contempo tanto astuti da imbrigliare il diavolo e liberare tutti gli altri bambini; pronti a disturbare un concerto di classica in un crescendo rossiniano di gag ma finendo per caso per creare interessantissima musica moderna, e poi piccoli dogi truffaldini che restituiranno la gioia a tutta Venezia ritrovando eroicamente la bambola di una bimba triste. Il resto è un libro che si apre e che si chiude, è un the fra attempate signore, è la centralità della musica che irrompe improvvisa, è l’immaginazione di due fratelli in uno studio di pionieri che vaga libera. Da una barca a forma di bottiglia di whisky a un contrabbasso-gondola, fra animali della giungla e figure orrorifiche, palchetti di un teatro e corde di luce, binari divelti e sigari incendiari, grammofoni nascosti e tanta dinamite da far saltare anche l’inferno. Forse l’unica strada, per i tre protagonisti, per assicurarsi il Paradiso. Di certo Nino Pagot ci si è assicurato l’immortalità nella storia del cinema, non solo italiano e non solo d’animazione. Per sé e per tutta la sua famiglia.

Marco Romagna

“The Dynamite Brothers” (1949)
85 min | Animation | Italy
Regista Nino Pagot
Sceneggiatori Nino Pagot, Toni Pagot
Attori principali Aldo Silvani
IMDb Rating 6.4

Articoli correlati

LA FAMOSA INVASIONE DEGLI ORSI IN SICILIA (2019), di Lorenzo Mattotti di Marco Romagna
SLOCUM ET MOI (2024), di Jean-François Laguionie di Marco Romagna
SAUVAGES! (2024), di Claude Barras di Marco Romagna
IDDU (2024), di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza di Marco Romagna
LA ROSA DI BAGDAD (1949), di Anton Gino Domeneghini di Marco Romagna
KIMINOIRO (2024), di Naoko Yamada di Marco Romagna