I DUE FJODOR (1958), di Marlen Khutsiev
Dopo l’intenso esordio di Primavera in via Zarečnaja (1956) – tenera storia d’amore tra un operaio e un’insegnante sospesa tra continue derive sentimentali che anticipa alcuni elementi della sua poetica e del cinema del disgelo – e prima dello splendido Ho vent’anni (1965) – dove il suo carattere autoriale arriva alla maturazione con una delle espressioni più compiute del cinema degli anni sessanta – Marlen Khutsiev gira nel 1958 il piccolo I due Fjodor, che lancia anche l’attore Vasilij Šukšin come “un nuovo tipo di eroe popolare” da contrapporre ai personaggi idealizzati ed esemplari del realismo socialista. Questo aspetto è probabilmente fondamentale non soltanto come nota biografica, ma come primo momento in cui il governo russo si interessò direttamente all’opera di Khutsiev, fino al taglio di mezz’ora che lo stesso Chruščëv ordinò per il successivo Fortezza Ilic (ribattezzato appunto Ho vent’anni).
Ma andiamo per gradi. L’ambiente caro a Khutsiev è sempre quello della macerie (soprattutto umane) che la guerra lascia in eredità; in questo contesto Fjodor, un soldato in congedo sulla via di casa, incontra un suo omonimo più giovane, orfano e senzatetto. Dove le loro strade paiono prendere direzioni diverse il Fjodor soldato decide all’improvviso di portare il ragazzo a vivere con lui, educarlo e renderlo partecipe della (ri)costruzione. Questo incontro casuale si trasforma gradualmente in una timida relazione padre-figlio, specchio di ciò che può germogliare anche in un periodo così drammatico come quello post-bellico. La loro splendida simbiosi entra in crisi quando il Fjodor grande conosce la giovane e bella Natasha. Ci vorrà una notte di fuga e redenzione per riportare il giovane sulla strada di casa, per così guardare tutti assieme al futuro. Quel futuro di ancora difficilissima interpretazione, ma di estrema vitalità, quello del ritorno alla vita di un’intera generazione di persone dopo la guerra.
Quest’opera sottile e tenera ci consegna un Khutsiev ancora realista, vicino ai più affermati Romm, Kalotozov e Bondarchuk, ma già attento su come dalla narrazione stessa nasca la possibilità linguistica di definire lo spazio storico e sociale, umano e politico, che si va a raccontare. La sequenza d’apertura, in questo, è ammaliante. Arriva un treno con in testa un ritratto di Lenin, vediamo montate schegge di paesaggio russo ed ucraino, scorci di borghi, steppe, ponti, fiumi come se l’intero paese si riunisse questo treno; stanno tornando a casa tutti i soldati: i superstiti, i sopravvissuti, i salvati pronti a cercare di andare avanti. Il passato (cioè la guerra) non è ancora completamente sparito, ed il presente (cioè il mondo nuovo) non è pienamente arrivato. In questo limbo è difficile cercare una propria autodeterminazione personale, ancora di più quella sociale. La guerra non è così facile da lasciarsi alle spalle, il passato rimane nell’uomo, facendolo soffrire ed ogni piccolo gesto pare un monumento per ricordare quel dramma, sperando che non si ripeta in futuro.
E’ molto più difficile tornare alla vita, per costruire una casa insieme; lo è per i due Fjodor con Natasha, lo è per tutto il paesino magnificamente descritto dal film, lo è per l’Unione Sovietica in generale, lo è in fondo per qualsiasi popolazione colpita da ciò. Khutsiev coglie tutto questo, e lo oltrepassa, definendo una serie di metafore e di oggettivazioni che si slanciano in maniera netta e decisa dal realismo socialista e che da li a poco lo vedranno protagonista di una delle più importanti esperienze del modernismo cinematografico mondiale. Nei seguenti Fortezza Ilic / Ho vent’anni e Pioggia di luglio (1966), gli elementi stilistici qui abbozzati prenderanno il sopravvento nel definire magicamente un quadro di soggetti e situazioni sublimi, ma che proprio in quell’ URSS inizieranno ad essere pesantemente ostracizzati. Ma questa, in fondo, è un altra storia, e nemmeno tanto del Cinema.
Erik Negro