I CORPI PRESENTANO TRACCE DI VIOLENZA CARNALE (1973), di Sergio Martino
Talvolta al cinema il protagonista è lo sguardo. Accade anche in I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973) di Sergio Martino, titolo a suo modo fondante nel genere giallo all’italiana e imprescindibile per la storia dello slasher a tutte le latitudini. Tralasciando il gioco della primogenitura tra gli esempi italiani e quelli americani (Halloween, Venerdì 13, in effetti tutti posteriori), ché tanto si è sempre a rischio di scoprire dopodomani magari un oscuro slasher degli anni Trenta, resta comunque un fatto che Sergio Martino non si profili come un semplice epigono dell’ondata gialla nel cinema italiano portata dal grande successo di Dario Argento, e che il suo cinema presenti tratti fortemente personali. D’altra parte niente nasce mai completamente nuovo, né nel cinema né in qualsiasi altra forma d’arte. Lo stesso Argento riscosse sì agli inizi degli anni Settanta un successo senza precedenti in Italia per il cinema giallo-thriller prodotto in casa nostra, ma veniva comunque formandosi su un terreno ampiamente dissodato (non soltanto Bava, ma anche autori come Pietro Germi si dedicarono a film di detection, senza dimenticare autori meno noti come Luigi Bazzoni e il suo eccellente La donna del lago, 1965, codiretto con Franco Rossellini). E’ altrettanto indiscutibile che lo sfruttamento commerciale del filone fu intensissimo lungo tutti gli anni Settanta, con una relativa stratificazione tra opere ricche, medie, povere, poverissime, sia sul piano produttivo che su quello espressivo, per stare dietro all’impazzimento di massa per la scoperta inaspettata della violenza e della morte al cinema. E, non ultima, la scoperta dell’erotismo, vero e unico filo conduttore totalizzante della cinematografia italiana di largo consumo lungo tutti gli anni Settanta, capace di innervarsi in un esorbitante consumo audiovisivo e di intrecciarsi ai generi più diversi: giallo ed erotismo, poliziottesco ed erotismo, commedia ed erotismo, e via dicendo.
A ben vedere in tale panorama Dario Argento risulta meno esplicito, percorso da una dimensione erotica sempre presente ma avvitata nella repressione e allusione. Sergio Martino invece è più diretto, non nasconde mai per un momento l’intenzione primariamente commerciale del proprio cinema, servendo al pubblico buone dosi di ciò che esso si aspetta. Tale intenzione è esplicita fin dal titolo chilometrico e sensazionalistico, che si tiene lontano dalle bizzarrie etologiche di uccelli, gatti, mosche, tarantole, lucertole e tutto lo zoo che il giallo italiano s’inventò per bissare il successo della trilogia animale di Dario Argento, e più direttamente si lega al linguaggio da rotocalco di cronaca nera (vengono in mente certe copertine survoltate e surreali della rivista “Cronaca Vera”, must d’epoca che aveva iniziato le sue pubblicazioni nel 1969). Coerentemente, Martino si appoggia a una catena narrativa meno stringente, in cui non tutto appare strettamente necessario e imprescindibile allo svolgimento della trama gialla. Nel tessuto narrativo si aprono lunghe parentesi di erotismo soft, una su tutte il rapporto saffico tra due delle protagoniste, che poco aggiunge al racconto se non un ulteriore giro di vite sulla mania ossessiva e moralistica dell’assassino. Sono da leggersi in questa direzione anche gli ampi indugi della macchina da presa nella sequenza ambientata nella comune hippy, dove Martino dedica un lungo contre-plongé al corpo di una ragazza danzante in short di jeans. Insomma, belle ragazze, erotismo e giallo ai limiti dell’horror: la somma di alcuni degli ingredienti più graditi a un pubblico giovane che per la prima volta incontra una massiccia produzione cinematografica italiana ideata e prodotta per loro. Non è un caso d’altra parte che verso la fine del decennio e fino a metà anni Ottanta Sergio Martino approdi poi ai confortanti lidi della commedia sexy all’italiana, secondo un’idea di autore al servizio dei gusti del pubblico, anche i più corrivi. Ma al di là di tale confezione studiatamente merceologica, ne I corpi presentano tracce di violenza carnale l’erotismo permea il racconto da cima a fondo, diventa il primo motore narrativo, la causa scatenante della furia omicida, raccogliendo anche il trinomio di successo tra facile psicanalisi (in quegli anni ai primi albori della scoperta di massa), turba sessuale e follia assassina. Di più: sul versante maschile il film si configura come un concerto di complessi e devianze sessuali, tra innamorati patologici, mostri lombrosiani che sfogliano riviste porno, zii perversi e misteriosi dottori. Se il connubio psicanalisi-sesso-violenza è ben presente al cinema di Dario Argento (ma anch’esso viene da più lontano), d’altro canto il film di Martino prende le distanze dal modello sotto varie sollecitazioni: per fare posto alle parentesi quasi extradiegetiche di cui sopra il racconto si fa più libero e svariante, così come si rifiuta l’idea del personaggio protagonista, sorta di guida allucinata nell’orrore, per ricorrere a una struttura corale che solo nell’ultima mezz’ora si affida all’unico personaggio. Certo, le ingenuità e le soluzioni facili abbondano, soprattutto nell’evidente rapidità di scrittura dei dialoghi, ma stilisticamente Martino mostra di saper maneggiare gli strumenti della suspense come pochi altri. Perché, se come dicevamo l’erotismo sorregge le fondamenta di tutto il film, per diretta conseguenza il vero protagonista si riconverte nello sguardo. Per tre quarti I corpi presentano tracce di violenza carnale risulta infatti una sinfonia di soggettive e semisoggettive, che svelano sopra ogni cosa la natura violenta dell’atto del guardare. Basti pensare alle prime sequenze ambientate sulla piazza di Perugia, in cui ragazzi e ragazze, studenti universitari italiani e stranieri, si muovono in ampie inquadrature animate da numerose comparse, sotto lo sguardo costante quindi di centinaia di occhi che tutti quanti potrebbero appartenere all’assassino, con la macchina da presa chiamata spesso a simulare uno sguardo minaccioso e inquietante. Lo stesso incipit, che resterà misterioso fino allo scioglimento, mostra una sequenza di sesso di gruppo che viene più volte fotografato (alternativa allo sguardo umano) mentre a una bambola vengono cavati gli occhi, rituale che l’assassino infliggerà anche a tutte le sue vittime. Atto estremo, quindi, di violento rifiuto dello sguardo.
E ancora, come già in L’uccello dalle piume di cristallo (1970) e come sarà di nuovo in Profondo rosso (1975), è un equivoco visivo a fare da McGuffin per il procedere del racconto. Stavolta è un foulard rosso, di proprietà dell’assassino, che una delle ragazze protagoniste ha visto addosso a qualcuno e non ricorda a chi. In cotanta insistenza sulla dimensione dello sguardo, Martino si diverte pure a confondere le acque con un uso intelligente delle false soggettive o delle soggettive libere, alle quali non si è sicuri di attribuire la giusta identità. Lo scopo è l’edificazione di un universo intensamente paranoide, in cui lo sguardo è prima di tutto minaccia, sospetto e attacco alla propria integrità. Ed è tutto fuorché fonte di verità. In tale orizzonte pressoché metafilmico Martino sembra prendere a pretesto una trama gialla per imbastire magistrali sequenze d’omicidio, a loro volta lunghe parentesi narrative che per gestione della suspense e uso della macchina da presa hanno poco da invidiare alle pratiche di più blasonati maestri. Pensiamo soprattutto ai primi due omicidi (nel primo la panoramica a schiaffo che per la prima volta ci svela brevemente il volto incappucciato dell’assassino è di rara efficacia; nel secondo è di mirabile resa espressiva l’ambientazione paludosa) e alla fantastica mezz’ora finale, in cui tramite una liberissima e imprevedibile svolta narrativa Martino passa dal racconto corale a uno dei canoni più solidi del cinema della suspense: il gioco di gatto e topo tra l’assassino e la vittima immobilizzata in una stanza.
Decisamente sui generis è anche la scelta di ambientare il racconto in un contesto provinciale, che poi si trasforma addirittura in strapaesano. Ciò testimonia un’intenzione aliena al mondo espressivo di Dario Argento, e cioè la volontà di restare più o meno ancorati anche a un orizzonte sociale. Sia pure per tratti rapidissimi e decisamente stereotipati, Martino ambienta la sua storia in un contesto ricco di riferimenti culturali riconoscibili, mentre Argento costruisce città fantasmatiche assemblate tramite location le più diverse e definisce i suoi personaggi per pochi tratti dispersi in una sorta di surrealtà. Martino sceglie il contesto universitario e sceglie Perugia1, brulicante di studenti e studentesse venuti da ogni parte del mondo, raccontati per brevi tratti nella loro realtà contingente. In tal senso I corpi presentano tracce di violenza carnale si profila anche come un rarissimo caso di giallo hippy e contestatario all’italiana, con tanto di comune, amore libero, cannabis e danze lisergiche. L’approccio di Martino a tale realtà resta ambiguo, a metà tra l’adesione e lo scetticismo. Ma si tratta di un’ambiguità figlia del disimpegno, poiché l’orizzonte hippy è affrontato da Martino come una semplice occasione narrativa, come una qualsiasi variante dell’equazione trasgressione=punizione teorizzata per gli slasher dal buon Randy di Scream (1996). Ovvero, chi trasgredisce e si concede al sesso finisce ammazzato, e in tal senso nel film di Martino è evidente a tutti che la povera Carol, in procinto di fare sesso a tre, finirà accoppata.
Diverso invece è il discorso che Martino sembra imbastire nei confronti della provincia italiana, che sale ancor più protagonista nella seconda parte del film ambientata a Tagliacozzo. A farla da padrone è di nuovo lo sguardo, orrido e famelico, dei villici che vedono arrivare le tre ragazze straniere (per paradosso, potremmo dire che una delle sequenze più horror è esattamente la sequela di primi piani di uomini allupati che si mangiano le ragazze con gli occhi). A ruota si scatenano atavici appetiti in tutta una serie di personaggi più o meno tarati, dallo scemo del villaggio al lattaio, tutti forieri di accenti comici inaspettati in un contesto di giallo-thriller (il lattaio è interpretato non a caso da Vincenzo Crocitti). Se da un lato ciò testimonia una tendenza naturale di Martino per la comicità erotica che negli anni diventerà dominante nel suo cinema, dall’altro il film fa convergere la repressione sessuale su un doppio binario svelandone nello stesso istante il sorriso complice del comico e la fonte digrignata dell’orrore. In fin dei conti, comico e orrore non sono altro che due facce della stessa medaglia, e così facendo Martino va a cercare negli anfratti più insospettati della paciosa provincia italiana sacche purulente di patologia e perversione, un po’ come aveva fatto appena un anno prima Lucio Fulci in Non si sevizia un paperino (1972).
Il desiderio di percorrere strade già battute con successo da Dario Argento è insomma innegabile, a cominciare dall’utilizzo di attori venuti da quel cinema (Suzy Kendall da L’uccello dalle piume di cristallo, Carlo Alighiero da Il gatto a nove code…) per finire con le linee di massima della costruzione di un giallo sanguinoso. E la natura di opera a largo consumo è desumibile anche dal cast d’attori non di prima scelta, composto per lo più di volti stranieri da fotoromanzo che trovarono fortune brevi o lunghe solo in Italia. Ma Sergio Martino personalizza fortemente il genere, perseguendo più di tutto il piacere del ludus. Il piacere di fare e mostrare cinema, che sia erotismo, giallo, suspense o commedia. Il piacere, sopra ogni cosa.
Massimiliano Schiavoni
1 Per la sua natura multietnica Perugia sembra prestarsi a reiterati sfruttamenti cinematografici in ambito di giallo. Di recente Ruggero Deodato è tornato infatti alla regia con Ballad in Blood, film dedicato alla vicenda di Meredith Kercher, che quantomeno nell’orizzonte sociale ha qualche somiglianza col film di Sergio Martino.