I COMPARI (1971), di Robert Altman
“It’s true that all the men you knew were dealers
Who said they were through with dealing
Every time you gave them shelter
I know that kind of man
It’s hard to hold the hand of anyone
Who is reaching for the sky just to surrender
Who is reaching for the sky just to surrender”Leonard Cohen, The Stranger Song
L’apertura è sulla voce calda e suadente di Leonard Cohen, le note di The stranger song, lo straniero che giunge nella nuova terra, la fama da duro a precederlo, i sogni imprenditoriali da cavalcare: un saloon, una bisca, un bagno pubblico, un bordello, la prospettiva di diventare ricco. La finzione cinematografica ci porta al 1902, tempi di minatori freschi immigrati dall’Europa a popolare la piccola comunità di Presbiterian Church, una società prettamente maschile e sguaiata nella quale le uniche donne sono prostitute e mogli per corrispondenza che si offrono come carne da macello, un luogo dove la vita umana vale meno di qualche spicciolo. Una società basata sui vizi, sui richiami della carne, sul gioco d’azzardo, sull’alcool, sull’oppio, sulle pistole, sulle apparenze. Una società, suggeriva già al tempo Altman, in realtà non troppo dissimile da quella del 1971, anno di produzione del film, ma anche, potremmo aggiungere, drammaticamente vicina a quella di oggi, rivelando ancora una volta la scottante attualità sempiterna di un film straordinario. Quel piccolo miracolo che è stata la New Hollywood si è sempre occupata di destrutturare il cinema classico, di creare una frattura, di infrangere deliberatamente il codice Hays per riscrivere regole cinematografiche nuove e proprie: McCabe & Mrs. Miller, titolo italiano I compari, è il western secondo Robert Altman, è la distruzione sistematica dell’eroe e dell’ambiente, è il sogno americano che ancora una volta, con una satira forse ancor più feroce e amara del solito, si infrange contro la dissolutezza umana e le contraddizioni del Paese. Settima regia di un Altman lanciato al tempo solo di recente dal successo di MASH, I compari giunge in versione restaurata alla trentesima edizione del Cinema Ritrovato di Bologna: nelle vicende del borioso imprenditore McCabe (Warren Beatty) messo progressivamente a nudo in tutte le sue fragilità dall’amore nei confronti della prostituta Mrs. Miller (una magnetica Julie Christie), il regista statunitense declina vizi e virtù d’America, mette in scena la disillusione, crea un gorgo di immoralità e ipocrisia con il quale scardinare ancora una volta le regole del cinema.
McCabe & Mrs. Miller è un film sulla caduta delle apparenze e delle illusioni, che si pone come antiwestern usando gli stilemi propri del western, dallo zoom all’attesa, dallo stallo alla degenerazione, fino a una caduta che, anziché essere nella terra e nel fango, è nella neve. Per destrutturare il western classico americano, infatti, Altman parte da un’ambientazione insolitamente invernale, che inizia già con le pellicce in mezzo a sprazzi di verde per concludersi, nel momento in cui la degenerazione continua di una società senza più morale giungerà all’apice esplosivo e metaforico del film con la chiesa in fiamme e la corsa di tutti i peggio puttanieri e assassini per salvarla, sotto una fitta tormenta di neve. Altman, nel rifiutare le classiche ambientazioni bruciate di cactus e sudore, oltre ad anticipare di quarantacinque anni il Tarantino di The Hateful Eight crea una sorta di allegoria metereologica di una società fagocitante, nella quale non basta bere whiskey con uova crude, fumare il sigaro, cospargersi di profumi scadenti e millantare una reputazione sanguinaria per elevarsi dalla propria condizione di debole, inetto, alcoolizzato, perdente. Il film di Altman, nella sua tenuta narrativa granitica e avvolgente, è uno strale contro il capitalismo selvaggio che mette in scena nel personaggio di McCabe il self-made man americano avido e spaccone, ma in realtà profondamente umano nelle sue debolezze, nelle sue incapacità di fondo, nei suoi sentimenti che emergono e nel passo più lungo della gamba. In un mondo dove la compagnia mineraria – quindi la lobby, il potentato economico, le mafie, lo Stato – quando non vengono accettate le condizioni che pone manda i sicari, McCabe deve affrontare una lotta impari, da solo contro tre, da solo contro tutti. Tutto il cinema di Altman del resto, dal Philip Marlowe di The Long Goodbye ai quasi cinquanta protagonisti di Gosford Park, è sempre stato una carrellata di antieroi, di personaggi perdenti pronti a fallire anche nella vittoria. Perché è tutto il mondo ad avere perso, a rivelarsi una mera illusione, a inghiottire e inglobare, come la neve che si posa sui cadaveri ancora caldi nascondendoli alla vista, e forse anche al ricordo.
McCabe è “quello non ha mai ucciso nessuno”, McCabe è quello che sotto i fumi dell’alcool non capisce la pericolosità del suo rifiuto nella contrattazione innescando la tragedia, McCabe è quello che non sa fare i conti e ha in sostanza paura di investire, McCabe è quello che si allena davanti allo specchio per fare il duro scoprendosi inaspettatamente romantico, McCabe è quello che scappa dalla casa di tolleranza quando vede Constance impegnata con altri uomini. Si, perché soprattutto c’è lei: Constance Miller, la puttana (“I’m a whore”) che arriva nel cantiere con fare autoritario per trasformare tre tende e la prostituzione forzata di tre ragazze ribelli in un bordello d’alta classe, gallina dalle uova d’oro per l’imprenditore. Il personaggio che valse a Julie Christie una candidatura all’Oscar è il vero motore della vicenda: è lei che arriva a dare un senso agli investimenti altrimenti fallimentari di McCabe, è lei che mette a nudo le sue fragilità, è lei che guida l’intera narrazione con i suoi sbalzi d’umore oppiacei e con i suoi sprazzi di dolcezza, è lei che capisce quando tutto è perduto, e non resta che piangere, accettare l’ineluttabilità di un destino gravoso, lasciarsi andare alla passività perché tutto il resto è ormai inutile. Altman ne I compari mette in scena danze sfrenate sul ghiaccio contrapposte a movimenti felpati e silenziosi, la torre campanaria della chiesa come centro nevralgico dell’ipocrisia di una società che parla di Dio con il dito sul grilletto, prostitute che “non devono avere il tempo di pensare, perché una puttana che pensa torna inevitabilmente alla religione, è da lì che viene”, il montaggio alternato fra l’intervento dell’intera popolazione per spegnere le fiamme e Warren Beatty-McCabe solo e ferito che vaga fra i ghiacci trovando, anche dopo l’illusione di una vittoria, l’inevitabile sconfitta. A Constance, tredici anni prima del finale di C’era una volta in America, non resta che sdraiarsi nella fumeria, caricare la pipetta, aspirare avidamente l’oppio, mentre la macchina da presa stringe sublime sul suo occhio lucido. È tutto finito. Tranne il film, che nonostante il The End che si staglia sullo schermo rimane negli occhi a lungo, forse per sempre.
Marco Romagna