I BAMBINI SANNO (2015), di Walter Veltroni

A Walter
Tenero padre
madre dei miei sogni
Anima ulcerata.
Figlio mio
Ritrovato

Sandro Bondi
(da Perdonare Dio, Edizioni della Meridiana 2007)

A dispetto del titolo, declinazione tutta veltroniana del “Io so” di Pasolini, il nuovo film di Walter Veltroni è un’inconsapevole negazione dei suoi intenti progressisti e una fotografia di quanto sia poco poetico e libero il vivere da fanciullo nell’Italia contemporanea. E’ nato (a sua insaputa) l’anti-Truffaut italiano.

Una serie di interviste intrecciate tra loro e pettinate in comodi macro capitoli che hanno come ambiziosa finalità la rappresentazione di una gnoseologia infantile, un affresco dell’Italia contemporanea attraverso gli occhi dei più piccoli. Un mondo altro è possibile se ad indicarcelo sono i bambini, perché i grandi possano riflettere sulle proprie contraddizioni e meschinità. Ascoltare i piccini, ecco il messaggio evangelico di Don Walter, ascoltarli per capirsi tutti un po’ di più e scegliere meglio in quale direzione andare. Tra la pedagogia più spicciola che si può immaginare, l’oroscopo di Internazionale, Osho e Fra Tac.

Trentanove bambini tra gli 8 e i 13 anni, raccolti nelle loro camerette, rispondono alle domande di Veltroni (fortunatamente mai inquadrato) su cinque tematiche: amore, famiglia, Dio, omosessualità e crisi. Tematiche vastissime come il cosmo che, dietro alla loro pretestuosa suggestione emotiva, affogano in un oceano di vacuità e spostano l’asse del documentario dal campo della realtà ad una specie di limbo metafisico da quattro soldi.
Tra un’intervista e l’altra, didascaliche inquadrature da sfondo del desktop e le musiche di Danilo Rea tanto enfatiche da sembrare quasi una sottile parodia. Ma partiamo dalle premesse. Quello che pare essere un ambizioso progetto documentario è un’idea già sperimentata in passato (I bambini e noi di Luigi Comencini – 1970 – a cui il film è dedicato).
Tuttavia, mentre Comencini seguiva i bambini nelle loro città, nei cortili degradati dove giocavano, nelle periferie dove bighellonavano, nelle officine dove lavoravano, insomma nella loro realtà quotidiana, Veltroni intervista il suo club dei 39 nelle camerette/rifugio, a telecamera fissa, quasi sempre a mezzo busto, senza farci entrare nella loro realtà, senza mostrarcela mai, ma limitandosi a raccontarcela a parole. Parole spesso insolentemente patetiche, degne della peggiore televisione del dolore. Così come diversa da Comencini è la scelta dei piccoli protagonisti da intervistare: non sono bambini qualsiasi, ma precisi campioni dimostrativi di situazioni difficili. C’è il piccolo malato di leucemia allontanato dai compagni in quanto guarito, le due sorelline di cui una con la sindrome di Down, il nipote di una vittima del terrorismo che non riesce a trattenere rabbia e lacrime, il presunto genio di matematica (para-autistico) che lancia anatemi contro i social network, il piccolo rom che vive nel campo con i topi e il cui papà è in carcere… e così via, in un vero e proprio catalogo di condizioni di particolare disagio.

Il risultato è una serie di chiacchierate tra Veltroni/Coelho e dei bambini sorprendentemente a loro agio davanti alle telecamere, capaci di dissimulare il loro pensiero, di mentire e di capire perfettamente cosa ci si aspetta da loro. Bambini che emulano in tutto e per tutto gli adulti e che, per questo, mettono anche un po’ di tristezza. Sono i mostruosi bambini dell’Italia di oggi che avrebbero meritato più attenzione e che invece risultano fagocitati dall’egoistico lirismo del regista tutto teso a fare un bel fiocco colorato a questo pacco che spaccia per poesia. Ma sono bambini anche profondamente ingessati, fragili, isolati e depressi. Bambini chiamati a rispondere a tematiche esistenziali quando invece sarebbe loro diritto giocare a pallone e fottersene allegramente del mondo delle idee platoniche secondo Veltroni, di Dio, dell’idea di diversità, della crisi dell’economia italiana e della fabbrica che muore. Questo infatti il paradosso involontario del film: un inno all’infanzia senza gioco, senza movimento, senza vitalità. Un inno a bambini già vecchi, noiosi e con le problematiche e le sofferenze proprie del mondo adulto.

Un film che confonde la poesia con il lirismo, che imprigiona l’infanzia in squallide camerette e che la priva di orizzonti, di aria e di libertà. Un film che dimostra quanto Veltroni – checché dica il contrario– non abbia capito proprio nulla di Truffaut e di Pasolini e, pertanto, un film imperdibile e gustosissimo da vedere.
L’epilogo non delude le aspettative, con Veltroni che assurge a Don Milani e porta il piccolo rom a vedere il mare per la prima volta, sempre sull’emozione della musica melensa di Danilo Rea e con tanto di fermo immagine: ed è subito Rai1.
Ha già un posto nel nostro cuore come cult-doc e confidiamo che il clamoroso insuccesso registrato al botteghino non scoraggi l’autore a persistere nel suo prezioso lavoro di anti-Truffaut italiano.

Luigi Pesce