I AM HUMAN (2019), di Elena Gaby e Taryn Southern
Tutta la contemporaneità tecnologica è stata fantascienza. Spostarsi su mezzi di trasporto meccanici è stata fantascienza, poter volare è stata fantascienza, l’elettronica è stata fantascienza, il telefono è stata fantascienza. Per non parlare della sua evoluzione in smartphone, ormai una quasi (in)naturale estensione fyborg della nostra mano e del nostro cervello, il gesto che probabilmente più di tutti ogni giorno viene ripetuto. Oppure si pensi alle mani e alle gambe artificiali impiantate alle generazioni di Skywalker nel corso dei vari Star Wars, che ai tempi sono state pura fantascienza e che ora invece, evoluzione dopo evoluzione, sono i sempre più performanti arti artificiali meccanici accessibili a chiunque abbia dovuto subire un’amputazione, o ancora allo stimolo elettronico dato direttamente e autonomamente al cuore dai milioni di pacemaker impiantati ormai da decenni in giro per il mondo, che da mera utopia in relativamente pochi anni di studi e e perfezionamenti hanno oramai reso le cardiopatie molto meno letali. Del resto è proprio la scienza medica quella che, a braccetto con i progressi tecnologici e con quelli della bioingegneria, forse ancor più delle altre rende progressivamente possibile l’impossibile, prende la fantascienza e la rende una scienza il più possibile esatta, un dato preciso e razionale, una possibilità concreta di migliorare con l’high-tech la vita delle persone, un nuovo punto di partenza per il prossimo progresso. Forse verso il nuovo stadio evolutivo, con cui l’homo sapiens si ricostruisce con la tecnologia fino a diventare altro, o per lo meno, quando l’umanità viene strappata via nelle sue funzioni e nella sua “normalità” da una tragedia, l’unico modo per ritornare a sentirsi umani riconnettendo, tramite la macchina, il cervello con quel corpo che da solo non riesce più a comandare. Era in corso la Seconda Guerra Mondiale, quando il matematico statunitense Norbert Wiener iniziò per primo a parlare di cibernetica, ed era il 1960 quando gli scienziati Manfred Clynes e Nathan Kline, spianando di fatto la strada al cyberpunk artistico e letterario che sarebbe arrivato di lì a una ventina d’anni, ripresero dai primi del secolo il sogno futurista di coesistenza di uomo e macchina teorizzandone l’evoluzione in cyborg. Esseri umani potenziati e perfezionati da innesti tecnologici, organismi bionici in grado da soli di rimettere in discussione l’intero concetto di umanità, l’intera identità di una specie.
Ma al cinemascope e ai montaggi serrati di I am human, sorprendente documentario di guizzi linguistici ed echi fantascientifici partito da Telluride per giungere in prima italiana al Trieste Science+Fiction 2019, con cui Elena Gaby e Taryn Southern esplorano ben al di là della divulgazione lo stato delle cose nel campo degli studi neuroscientifici e neurotecnologici, non interessa tanto fantasticare su una possibile generazione di Robo-Cop. I suoi primi “reali” cyborg sono, come titolo suggerisce, semplicemente esseri umani, che nell’avanzare dei progressi tecnologici hanno accettato, fra più o meno radicati dubbi nel farsi manipolare e controllare da un computer parte di quel cervello in cui risiede il centro dell’identità umana, di essere cavia della ricerca facendosi impiantare le più moderne e futuristiche interfacce neurali. È Bill, rimasto tetraplegico a seguito di un incidente e pronto all’invasività di due tubi avvitati direttamente nella calotta cranica, attraverso i quali monitorare gli impulsi elettrici dell’intenzione di un movimento per imparare a poterli riprodurre in ripristino delle funzioni corporee e delle capacità perdute. Una tecnologia – e un ritorno al movimento perduto di chi pensava sarebbe rimasto irreversibilmente paralizzato – per ora possibile solo in laboratorio, ma proprio grazie ai progressi della ricerca su Bill auspicabilmente fra pochi anni replicabile ovunque in wireless per tornare a una vita il più possibile normale. È Anne, che con un impianto cerebrale e un apparecchio che le sostituisce le parti danneggiate del cervello ha rallentato e bloccato fino a veder quasi sparire gli irrigidimenti e i tremolii del suo morbo di Parkinson, ora nonna che viaggia e tiene in braccio i nipotini producendo con quelle mani un tempo inservibili lavori di pittura e cucito. È Stephen, diventato progressivamente cieco a causa di una malattia degenerativa, e adesso in grado di distinguere per lo meno i contorni e le ombre – in attesa di ulteriori perfezionamenti che potrebbero voler dire un reale ritorno all’indipendenza – grazie a un reticolo inserito sulla retina che riproduce direttamente nei suoi nervi ottici i dati trasmessi live da una telecamera wireless innestata nel ponte degli occhiali. Ed è in un certo modo anche Brian, ricco imprenditore e fondatore con un investimento da oltre cento milioni di dollari di una fra le più avanzate strutture di studi neuroscientifici al mondo, passato “dall’altra parte della barricata”, ovvero quella medico-scientifica, dopo aver sconfitto oltre dieci anni di quella depressione cronica che un impianto cerebrale avrebbe potuto curare in un lampo.
Tiene al centro i suoi protagonisti I am human. Tiene al centro la loro umanità negata dalla sparizione delle funzioni e in qualche modo restituita ripristinandole, tiene al centro il loro dolore da trasformare in gioia per la riappropriazione, tiene al centro la loro consapevolezza altruistica dell’importanza degli studi su di loro per il futuro, per poter aiutare ben al di là dei benefici personali per ora ridotti chi si troverà nella stessa loro situazione di malattia e disperazione. E tiene al centro gli scienziati che li aiutano a ricominciare a vivere, che spendono la loro intera vita di fronte a dati elettrici da raccogliere, analizzare, riprodurre, rendere possibili. Fra la fantascienza e la realtà, fra il sogno e il progresso, fra l’umanità e la tecnologia. Come se fosse la nascita di una specie tecnologica, magari in futuro in grado di capirsi attraverso dati elettrici che trasmigrano da un cervello all’altro processati da una macchina senza più bisogno di parole, potenziale e definitiva eliminazione delle barriere linguistiche, ma al contempo evoluzione dai riflessi inquietanti di una sincerità obbligata e meccanica. Fra Cleveland, Toronto, Ginevra, Seattle. E poi Chicago, Londra, San Francisco. Ovunque ci siano laboratori che sognano di far tornare umano chi si sente disumanizzato, ovunque si portino avanti gli studi neuroscientifici che continuano, giorno dopo giorno, a capire qualcosa di come i neuroni si mettano in comunicazione tramite impulsi elettrici e facciano funzionare il cervello e il corpo umano. Fra l’Hal 9000 di 2001 Odissea nello Spazio e i microchip di Mission: impossible, passando per i cartelli «I am» di ri-umanizzazione di ogni personaggio, Elena Gaby e Taryn Southern seguono con il loro I am human la costruzione degli elettrodi per studiare e ripristinare le funzioni cerebrali, fra l’impossibilità di sbagliare e i rigidissimi test di efficacia, fra i tentativi falliti e le sfide. Fra le delicate operazioni con mezzo millimetro di spazio d’azione, i fori nel cranio e i reticoli inseriti direttamente negli occhi a stimolare di nuovo le retine, e il tentativo di rendere la neurotecnologia sempre meno invasiva, con lo sviluppo di caschi in grado di registrare i dati e le funzioni cerebrali direttamente dall’esterno, senza la necessità di superare lo scalpo e la calotta cranica.
Fino a rendere chiaro e comprensibile a chiunque, attraverso animazioni, interviste, immagini d’archivio e documentazioni, un qualcosa di estremamente complesso, certo, ma anche e soprattutto ragionando sulle implicazioni personali ed etiche di una così invasiva e decisiva evoluzione tecnica. Consapevoli dell’ambiguità e della potenziale pericolosità di tutto questo, consapevoli dei possibili utilizzi inquietanti del poter controllare elettronicamente il pensiero e quindi la morale, i comportamenti e la più intima natura degli esseri umani, consapevoli di come anche ciò che nasce dalle migliori intenzioni (Frankenstein docet) possa trasformarsi con l’arrivo delle dita adunche del Capitale in manipolazione senza scrupoli, in perdita di controllo, in qualcosa di non solo non più naturale, ma di spersonalizzante, economico, politico, potenzialmente bellico. Consapevoli del disagio a sapere il cervello modificabile e in potenza manipolabile da un computer, a sua volta azionato da un altro uomo che, come attraverso gli elettrodi impiantati nella corteccia cerebrale riesce a ripristinare i comandi motori, attraverso quella stessa tecnologia potrebbe virtualmente inserire una qualsiasi idea malsana. Del resto i pensieri, nella contemporaneità, sono già modificati dai social, dalle pubblicità indicizzate sui gusti, dai dati raccolti da Google, Facebook e Instagram sul nostro modo di pensare. Sospesi fra i tentativi di migliorare la vita della gente e il semplice spionaggio. O forse, ancor peggio, passi di un lento condizionamento, di una dipendenza per la quale non servono nemmeno impianti chirurgici, ma solo tecnologia esterna e abitudini. La fantascienza è ora: bisogna sperare o mettersi definitivamente in allarme? Ai posteri l’ardua sentenza. Di certo ai cyborg Bill, Anne e Stephen, che sono tornati a muoversi, a controllare i movimenti e a vedere almeno qualcosa, va benissimo così. E anche a noi, per ora, questo può ampiamente bastare.
Marco Romagna