HYPNOTIC (2023), di Robert Rodriguez

Nulla è reale, in Hypnotic. Solo l’amore, più forte di qualsiasi possibile complotto e di qualsiasi costrutto mentale. Tutto il resto è immaginato, suggerito, costruito, indotto, recitato, (meta)cinematografico, in un divertente giocattolone con cui Robert Rodriguez torna alla regia guardando tanto al thriller psicologico e fantascientifico degli anni Novanta quanto alla tensione vertiginosa di Alfred Hitchcock, tanto alle costruzioni nolaniane di Inception quanto alla memoria da recuperare (e allo stesso Ben Affleck scelto come protagonista) di Paycheck, tanto alla trance del Kiyoshi Kurosawa di Cure quanto ai viaggi cerebral-onirico-geografici (anche se questa volta non virtuali) di Matrix. Un film di depistaggi e illusioni, di reset totali con cui tornare al punto di partenza e di continui ribaltamenti attraverso i quali procedere nella spirale di realtà parallele create da un’intera squadra di mentalisti, che se dal punto di vista dello sviluppo narrativo procede un po’ contorto eppure forse fin troppo prevedibile nella matrioska di quelli che saranno i suoi snodi principali, proprio nell’intuizione per molti versi teorica di svelare un set appena abbozzato di linee per terra e tubi innocenti come (unico) luogo di costruzione della memoria, più che sufficiente perché il protagonista veda e quindi intimamente creda (del resto, già nell’antica Grecia οἶδα significava “ho visto” e quindi “so”) di trovarsi di volta in volta in una banca, su un tetto, di fronte a un computer oppure in fuga oltre il confine messicano, trova una sua profondità quasi inaspettata in una riflessione sulla rappresentazione, sulla sospensione dell’incredulità, sulla finzione del quotidiano e sulla realtà a cui può condurre la messinscena. Sul poter tranquillamente morire in scena di ogni personaggio, perché una volta conclusa la recita l’attore ritorna vivo e vegeto nel successivo livello dello scenario, e sull’immaginazione che, proprio come la computer grafica su un green screen, crea quasi autonomamente quello che manca per illudersi di essere in un mondo-altro e in una storia-altra. Tanto più se imbeccata, manipolata, alterata nelle percezioni. Indotta, come un sogno, come un’immagine, come uno spettacolo. Come il cinema. Del resto che cos’è l’ipnosi di Hypnotic, se non proprio l’immagine cinematografica che fantastica e mette in scena trascinando lo spettatore nel vortice dei suoi costrutti, nella verosimiglianza della finzione, nei cambi di direzione dei suoi intrecci? Che cos’è se non il suo naturale e aperto mentire e far dolcemente naufragare nell’intrattenimento delle sue menzogne, il suo creare metafore attraverso le quali (far) riflettere, suggerire o magari carpire una verità, il suo riemergere ogni volta su uno schermo per ragionare sul senso stesso del suo mettere in scena? Come se la vita stessa nient’altro fosse che un infinito set in cui costantemente rappresentare se stessi, la propria vita, gli infiniti livelli della propria immaginazione. Il proprio Domino.

Un progetto, Hypnotic, che Robert Rodriguez ha coltivato per oltre vent’anni, con la prima stesura della sceneggiatura completata già nel 2002 dopo i primi due episodi della trilogia Mariachi, la doppia collaborazione con l’amico e mentore Quentin Tarantino in Four Rooms e Dal tramonto all’alba e i primi due fra i quattro Spy Kids, ma al contempo ben prima dei due Sin City, dei due Machete e di quel Planet Terror concepito come double bill con il Deathproof ancora di Tarantino nel progetto Grindhouse che ha segnato forse il maggiore successo nella sua carriera. Forse è per questo che, non solo in occasione del vociare intorno a questa prima internazionale come ultima Séance de Minuit di Cannes76, ma anche stando alla critica americana e ai pessimi dati del botteghino statunitense dove il film è uscito già da un paio di settimane, che indicano il peggior esordio in sala in carriera sia per Rodriguez sia per Affleck, in diversi stanno storcendo il naso trovando il film vecchio, datato, fuori tempo massimo. Eppure, se rifarsi a un immaginario cinematografico di un paio di decenni fa è una scelta pienamente consapevole e anzi assolutamente apprezzabile di un autore che segue indefesso la propria strada senza adattarsi in alcun modo alle standardizzazioni del mainstream, le domande sulla realtà o meno dell’immagine, e quindi esistenziali, che sembrano quasi tornare da un periodo vicino eppure lontanissimo, non ancora invaso dai social e dalla moltiplicazione virtuale di foto e video (senza immaginare a che cosa potrebbe portare in un molto prossimo futuro la creazione di immagini sempre più verosimili generate dalle AI che nemmeno hanno bisogno della creatività umana) non hanno assolutamente nulla di vecchio nell’anticipare quelli che sono i dubbi di oggi di fronte alla veridicità di ciò che si vede nella mole ormai incontrollata della rete, e alla sempre crescente difficoltà nel distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Come se questi vent’anni non avessero fatto altro che stratificarle, queste domande, renderle concentriche come le immaginazioni indotte nel protagonista, fare loro esprimere ancor di più la loro urgenza. Poi sì, è vero, Hypnotic non è nemmeno da lontano, per quanto forse il più ambizioso e il più amato dal suo autore (compreso l’averlo trasformato in una sorta di affare di famiglia, con tutti i suoi figli impegnati fra musiche, produzione, animatic e storyboard), il miglior film di Robert Rodriguez, troppo serio per riavvicinarsi alla geniale frenesia anarcoide della sua exploitation pulp, e con qualcosa nella sua struttura che oggettivamente può risultare già visto e in qualche modo fuori moda nei film semi-citati e negli immaginari di riferimento. Con qualcosa che può forse sembrare inutilmente (anche se in realtà solo apparentemente) complicato, e che forse al momento dell’ennesima rivelazione, quando ogni dettaglio e ogni indizio disseminato lungo lo scorrere della narrazione torneranno sin troppo alla perfezione, segnerà un disvelamento al contrario pienamente presumibile e anzi quasi scontato per chiunque abbia passato abbastanza tempo sulle poltrone di un cinema. Ma non è questo a rendere il film meno “bello”, godibile, divertente o intelligente, e comunque non è questo il suo punto. Il punto di Hypnotic non è la storia di un poliziotto che cerca disperatamente di tornare al momento rimosso in cui è stata rapita sua figlia Minnie e la sua vita è andata in frantumi, non è la foto della bambina che ritrova in una cassetta di sicurezza della banca prima che un misterioso e potente ipnotizzatore spinga i suoi colleghi a uccidersi a vicenda, non è la mentalista e operatrice dell’occulto con cui si ritroverà a indagare e a scoprire i suoi personali poteri, non sono i loro viaggi avanti e indietro per l’America né i loro mille incontri destinati a loro volta a rivelarsi illusione e improvvise trasformazioni in volti nemici, e non sono nemmeno i ribaltamenti che più volte ridiscutono tutto, fino all’inevitabile ultima costruzione mentale di chi è più potente di tutti e ancora una volta tutto sovverte nel nome dell’amore ritrovato di una famiglia (per lo meno fino a metà dei titoli di coda…). Il vero punto di Hypnotic è, esattamente al contrario, come non esista nulla di tutto questo, ma come al contempo possa esistere tutto: basta pensarlo e crearlo nella mente, su un palcoscenico, su uno schermo. Il punto è l’eterno set della vita, fatto di immaginazioni, costruzioni, dettagli, compromessi, rappresentazioni di se stessi e di ruoli consapevolmente funzionali a una costante messinscena. Il punto è l’esplorazione dell’immaginario alla ricerca del senso stesso della rappresentazione, è la memoria, è l’immagine, è la necessità di imparare a rimettere in discussione ciò che si vede, o forse di continuare a sognare e farsi indurre sogni nel buio di una sala, accettando con piacere di credere nel falso e magari cercando ogni volta di leggere il vero che inevitabilmente porta in filigrana. Il senso della vita, il senso del cinema. Basta(va) avere voglia di capirlo. Amarlo, o per lo meno ritrovarsi naturalmente a difenderlo, nient’altro è che una conseguenza. Indotta, sì, ma da un talento indiscutibile. Come un’ipnosi collettiva.

Marco Romagna