HOWLING (2023), di Aya Kawazoe
È prima di tutto un film di echi, Howling. Non solo quelli più espliciti e metaforici degli ululati che a più riprese si odono rimbombare lontani e spettrali da tutte le direzioni, come richiami di un lupo invisibile eppure capace di trovarsi e di trascinare ovunque nello spazio e nel tempo, fra un’identità e l’altra, fra una memoria e l’altra, fra il regno dei vivi e quello dei morti. C’è anche la più ancestrale cultura mistica e spirituale delle storie di fantasmi giapponesi, a riecheggiare in ogni singola immagine e suggestione messa in scena dalla brillante classe ’89 Aya Kawazoe. Ci sono chiaramente i due brevi racconti di Hyakken Uchida (già ispirazione in passato per Seijun Suzuki e Akira Kurosawa rispettivamente per Tsigoineruwaizen e Madadayo – Il compleanno), ovvero l’omonimo Tôboe e Meido – Realm of the Dead, da cui partire per immaginarne un adattamento onirico e libero come un enigma esistenziale impenetrabile. E forse soprattutto c’è il cinema del passato, non solo orientale e non solo d’Avanguardia, così manifestamente amato e studiato dalla regista, con un insistito rincorrersi di linguaggi, riferimenti e (semi)citazioni dei maestri alla ricerca di una rielaborazione personale dei loro immaginari. Echi che non sono solo di Kiyoshi Kurosawa, rimando più immediato ed evidente con i suoi personaggi spesso a cavallo fra la vita e la morte, persi in un limbo di incertezza in cui mettere in dubbio la propria esistenza e magari rendersi conto di essere già diventati spettri, ma anche di Nagisa Ōshima e delle (meta)proiezioni a passo ridotto sui corpi del suo Storia segreta del dopoguerra: dopo la guerra di Tokyo (forse maggiormente noto con il titolo originale Tokyo Senso Sengo Hiwa, o con l’internazionale The man who left his will on film), di Chris Marker e di quella memoria artificiosa e inevitabilmente corrotta di Sans Soleil, di René Clair e del dadaismo di Entr’acte, del New American Cinema e delle esplosioni di colori nelle saturazioni dei 16mm Kodak su cui non è affatto un caso che sia stato fotografato anche Howling, e in qualche modo perfino di Alfred Hitchcock in uno strabordante effetto-Vertigo che, dopo una lenta carrellata all’indietro, cambia all’improvviso lo sguardo sulla foresta che si estende fuori dalle finestre alle spalle del protagonista. Brandelli di storia dell’immagine in movimento che riemergono e si impastano fino a far vibrare di un fascino oscuro e inafferrabile l’ipnosi surreale su pellicola immaginata da Aya Kawazoe, proprio come riemergono e si sovrappongono quelle figure – reali o sognate, vere o false, concrete o astratte, contemporanee o riesplose all’improvviso da una qualche memoria – che appaiono e scompaiono nei tagli di luce e nel magnetico avvicendarsi di infinite intuizioni fotografiche e di montaggio.
Parte da una suggestione ben precisa Howling, quella di un uomo che, convocato in obitorio per riconoscere il corpo del fratello, allo scostarsi del lenzuolo nel volto della salma vede e riconosce se stesso. L’inizio di un incubo esistenziale, tanto proteso nella ricerca formale quanto rigorosamente narrativo, fatto di piani sempre più profondi del subconscio e di repentine variazioni sul tema della fuga, come un viaggio nello spazio e nel tempo, nelle emozioni e nei sentimenti più radicati e nascosti, che porterà il protagonista avanti e indietro fra le proprie memorie e quelle del fratello, fra i sensi di colpa e i dubbi esistenziali, fra la perdita e i fantasmi più irrisolti, fra la morte e la difficoltà di elaborarla. Fino a ritrovare se stesso, o forse fino a perdersi definitivamente fra le vibrazioni contrastanti e i sentimenti fuori fuoco e malinconici di chi non sa più se è vivo o morto, e proprio per questo si rende conto di essere transitorio, sfuggente, cosciente solo della sua incoscienza. Non è affatto un caso che Howling si apra sul risuonare armonico della carta messa come tappo per chiudere in un barattolo un enorme calabrone e i suoi rumorosi ronzii. L’ennesima eco, l’ennesima vibrazione da mettere in relazione con altri echi e altre vibrazioni, l’ennesima spirale ipnotica in cui conducono le immagini e il sound design. Con altri personaggi che appaiono e scompaiono improvvisi, con altri dialoghi che in realtà nient’altro sono che monologhi interiori, con altri lacerti di vita che riemergono per rivendicare la propria presa di coscienza. Sulla realtà, sull’immaginazione, sulla memoria, sull’identità personale e familiare che non può prescindere dal vis(su)to che la forma. Poco più di venti minuti nei quali, dopo la prima assoluta di gennaio fra i corti di Rotterdam e l’ancora più recente passaggio nella competizione principale dell’ultimo IndieLisboa, deflagrano la potenza espressiva e lo stato di trance di quello che è forse il più affascinante fra i lavori presentati nel Concorso della 59ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, sorta di summa di una selezione coerentissima nel mettere in aperto dialogo fra loro opere il più possibile differenti per provenienza, formato e ambizioni, eppure tutte concentrate sul senso dell’immagine (personale, universale, storico, politico, archivistico, onirico, magari psicotropo) e sulla gestualità fisica attraverso cui ottenerla, sul visibile e sull’invisibile, sul materico e sull’inafferrabile. Sull’artificio, sull’idea, sul linguaggio con il quale esprimere una sensazione. Può bastare un ralenti, può bastare un taglio di luce, può bastare un treno che passa, può bastare un barattolo rotto con un insetto che volerà via per sempre, può bastare il leggero ticchettio di una macchina da presa da cui (non) rendersi conto di essere filmati, e può bastare quello ben più forte del proiettore che fa rivedere ancora una volta se stessi sullo schermo bianco illuminato dalla sua luce, e poi magari sovrapposti sul proprio stesso volto che non riesce a fare a meno di sbirciare terrorizzato fra le dita. Può bastare la silhouette di una rana che passa di mano in mano, nero su bianco di forme e di movimenti. Può bastare una figura nel paesaggio, fra le lande più desolate della Natura e le città in cui perdersi come in un formicaio. Può bastare un lenzuolo messo sulla testa come il più classico dei fantasmi, può bastare uno specchio (o magari la semplice rifrazione di una finestra con dietro il buio della notte) in cui (non) ritrovarsi, può bastare un movimento a schiaffo dopo il quale staccare su tutt’altra situazione: «Dove sei? Dove sei stato?», «Ora ricordo», o forse no, non importa (più). Può bastare ritornare all’innocenza di un tempo, o magari arrendersi all'(impossibilità di un’)evidenza, alla dimensione incubale, forse alla morte, forse alla (non) fine. Chissà. Di sicuro c’è il talento indiscutibile e cristallino di Aye Kawazoe, che dopo quattro cortometraggi dalla forte e personalissima impronta autoriale sembra essere ormai definitivamente pronta al grande salto. Sarà solo il tempo a dire dove potrà arrivare nel prossimo futuro. Potenzialmente molto lontano.
Marco Romagna