16 Febbraio 2025 -

HOW TO BE NORMAL AND THE ODDNESS OF THE OTHER WORLD (2025)
di Florian Pochlatko

«Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri», scriveva Antonio Gramsci dal carcere di Turi nel 1930, fotografando a cavallo fra la crisi del ’29 e la definitiva affermazione dei nazifascismi quella sensazione di progressiva perdita di controllo in una realtà sociale, e quindi inevitabilmente quotidiana, sempre più instabile e pericolosa. Una frase che Florian “Flo” Pochlatko, trentasettenne scrittore e regista nativo di Graz ultimo rampollo di famiglia fin da metà degli anni Cinquanta ampiamente radicata nella produzione cinematografica austriaca, fa sua e ricontestualizza come incipit del suo sorprendente lungometraggio d’esordio How to be normal and the Oddness of the Other World, presentato fra le Perspectives della 75ma Berlinale e semplicemente bellissimo nell’inoltrarsi fino ai meandri più oscuri della malattia e dell’instabilità mentale senza mai staccarsi dal punto di vista (e dai sogni, e dalle passioni, e dalle medicine, e dal bipolarismo, e dalle cicatrici dei tagli autolesionistici, e dai disturbi schizoidi-paranoidi con cui progressivamente non capire più che cosa sia reale e che cosa non lo sia) della protagonista e della sua famiglia, fino a diventare le sue visioni in un mosaico di formati, paste, supporti, mascherini e linguaggi cinematografici che allo stesso modo cercano un ordine impossibile nel caos e che allo stesso modo progressivamente finiranno per perdere il controllo in un piccolo mondo interno ed esterno che si sgretola e nell’avanzare di una crisi psicotica, e poi per ritornare ancora (e si spera definitivamente) alla realtà e all’equilibrio nel disvelamento del dispositivo cinematografico-narrativo e nel riconoscere in quanto tale l’immaginazione. Non è un caso, in tal senso, che la protagonista ventiseienne Pia, appena dimessa dall’ospedale psichiatrico, sia proprio una grafica ed ex-studentessa di cinema. Come se ogni cambio dell’immagine cinematografica, dalla pulizia quasi aleatoria del digitale-realtà alla materia vibrante della pellicola di quando letteralmente Pia “si fa un film” in testa, passando per l’interlacciato delle videocamere accese sulle sedute terapeutiche, per l’1,85:1 che diventa 4/3 o 2,35:1 magari in passo ridotto e con o senza mascherini a stondare i bordi nel trasformare la quotidianità (e se necessario i volti dei personaggi) in una telenovela noir o in un horror catastrofico hollywodiano, ma pure per le aperture a iride e per gli zoom out sulle perforazioni dell’emulsione, per i bombardamenti subliminali (un po’ à la Requiem for a Dream) di dettagli e passaggi rapidissimi che montano serrate istantanee di Xanax e attacchi di panico, per i video social verticali (magari con filtri di derisione e stigma sociale) di chi la vede e la filma mentre “dà spettacolo” di fronte a una vetrina e per i monoscopi televisivi, code di pellicola e lampi di luce nel buio che si fanno veri e propri segni di interpunzione nella narrazione, nient’altro fosse che la traduzione in immagini del suo punto di vista fragile e instabile su un mondo altrettanto fragile e instabile, delle sue allucinazioni, delle sue pulsioni masochiste, del suo dolore esistenziale così impossibile da reprimere e controllare. Del suo nulla esistenziale come un altro mondo nel quale, come una sorta di mostro gigante senza più il volto, coperto e sostituito da una fetta di formaggio, o da un sacchetto, o da una foglia, o da un faldone da ufficio, fare sprofondare l’intero universo. Eppure basta la poesia di una carezza, per rendersi conto di avere ancora la faccia. Basta un gioco con un bambino contro i suoi nemici immaginari per rendersi conto che la fantasia può essere virata verso la positività e il divertimento, e non solo verso la paura e la paranoia. Basta una carrellata all’indietro su un camera car che nient’altro è che uno schermo/muro di immagini in movimento di fronte a una macchina ferma. Basta un sospiro a Il gabinetto del dottor Caligari e uno sguardo verso il futuro, tanto brillante da costringere agli occhiali da sole anche nel pieno della notte.

È la cronaca in prima persona singolare di un esordio psicotico, How to be normal and the Oddness of the Other World. Con la voce fuori campo della protagonista, con la centralità quasi (s)oggettiva del suo sguardo e dei suoi disturbi, con il suo nascondersi sotto il letto urlando per difendersi dagli inseguitori immaginari della CIA senza più sapere dove finiscano gli effetti delle medicine e ricominci la sua malattia, con i suoi tremori e con i suoi pensieri suicidi come unica apparente via di fuga, e parallelamente con la costante pressione e l’inevitabile esaurimento nervoso di chi sta vicino a lei e tenta invano di proteggerla, vedendo ogni giorno frustrati i suoi tentativi di normalità fino a non sapere più cosa fare se non finire in burnout. Un reinserimento fatto di un nuovo lavoro a sua volta instabile fra storture e contraddizioni burocratiche (la compensazione del CO2 prodotto per stampare, quando sarebbe più che sufficiente compilare i form digitalmente), cambiamenti (anche climatici, come ricorda la televisione con gli eventi estremi raccontati dai telegiornali) e incertezze di ogni tipo sul futuro, mentre il padre e proprietario dell’azienda sta per firmare contratti con affaristi che a Pia è impossibile non vedere come pagliacci accompagnati da inquietanti agenti/gangster, la madre doppiatrice di documentari televisivi catastrofici semplicemente non ce la fa più, le amiche non possono fare altro che guardarla mentre si butta nuovamente via senza poter fare nulla per aiutarla e l’ex ragazzo e colonna portante dell’intera vita, finalmente impegnato in un’altra relazione sana anziché tossica, continua ad amarla e ad essere amato ma sa perfettamente come continuare a vedersi non possa che fare male a entrambi. Il resto, messo in scena da Pochlatko fra infinite intuizioni formali e progressive matrioske di vero e di falso, sono superalcolici e droghe sintetiche assunti sugli psicofarmaci, sveglie alle 18:30 solo perché dopo aver saltato pranzo è pronta la cena, alternanze di tendenze anoressiche e di fame compulsiva di fronte al frigorifero, tagli sulle braccia e sulle gambe che ricominciano a sanguinare o forse non hanno mai smesso di farlo, intere giornate senza riuscire ad alzarsi dal letto e intermezzi sessuali di una sola notte che forse sono reali o forse soltanto immaginati, fra il desiderio e il tentativo di far ingelosire Joni fino a quando la “reale” Pia irromperà fisicamente nel bel mezzo di un suo sogno, a minacciare l’ex ragazzo nella sua casa e poi a tentare una fuga che in primo luogo è da se stessa, e quindi giocoforza impossibile. «Sono ancora io», (si) dirà più volte, mentre rimette costantemente la propria identità in discussione fra impulsi negativi che non riesce (ancora) a tenere a bada e continue ricadute nelle spirali delle sue psicosi, contrattempi inevitabili di un percorso complesso e accidentato verso un nuovo punto di equilibrio farmacologico e mentale dal quale far ripartire la propria vita. Un percorso che non può prescindere dalle cadute per rialzarsi, che non può prescindere dal lasciare emergere il mostro come unico modo per poterlo finalmente combattere e allontanare, o forse semplicemente che non può prescindere dall’immaginare (nella mente, nella vita, nel cinema) il peggio per esorcizzarlo, per fare in modo che non debba realmente accadere in quanto in qualche modo già vissuto e superato. Comprese le incomprensioni, comprese le etichette sociali, compresa la violenza verso se stessi e gli altri, compresa magari anche la morte – «Basta giocare, voglio tornare a casa!». Il termine di un viaggio di immagini simboliche che si sfaldano alla stregua di un fotogramma che prende fuoco e scioglie sullo schermo la propria emulsione dentro e fuori dalla mente, nella quale possono improvvisamente esplodere extradiegetici gli anni Novanta di What is love in un balletto onirico oppure il dark elettronico solitario di Rosa Anschütz con Rigid, i genitori possono diventare attori (o magari pazienti) di una storia-altra da vedere già messa in scena, le voci off del cinema possono tranquillamente essere una voce interiore che ora è la coscienza e che ora spinge verso il Male mentre la realtà può improvvisamente disvelarsi come impressione o meglio letterale incubo, oppure al contrario ripresentarsi a interrompere la bellezza di un sogno. Nel dolore e nella preoccupazione di chiunque non possa fare a meno di amare, e poi nelle risate di chi ha semplicemente raccontato una storia ai propri compagni di sventura la sera prima di essere dimessa, e adesso nel suo nuovo punto di equilibrio senza più crisi acute ha davanti un’intera vita ancora tutta da vivere, da narrare, da trasformare ancora in (grande, maturo, consapevole, psicologico, umanissimo, strabiliante) cinema.

Marco Romagna

“How to Be Normal and the Oddness of the Other World” (2025)
Drama | Austria
Regista Florian Pochlatko
Sceneggiatori Florian Pochlatko
Attori principali Luisa-Céline Gaffron, Cornelius Obonya, Elke Winkens
IMDb Rating N/A

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