La storia ritorna anche quando cambi ala prospettiva. Nella secolare Aleppo, che segna(va) la frontiera dove una volta arrivavano i rifugiati armeni, e ora quelli siriani, Avo Kaprealian trasforma in Houses without doors, presentato in TFFdoc al Torino Film Festival 2016, il suo balcone in un palcoscenico all’aperto dove (si) guarda la vita in divenire. Il luogo oggi pare trasformare i suoi protagonisti e non riconoscerli, mentre esplode il mondo sotto l’obiettivo del cineasta, nelle strade del suo quartiere che freneticamente filma, cercando di scovare quelle parole a commento di un orrore. Allo stesso tempo, però, scorre imperturbabile e glaciale la routine quotidiana di famiglia, guardare la TV, lavare i piatti, fumare centinaia di sigarette, senza nemmeno più chiedersi se tutto ciò potrà finire. Il punto oramai è il non cercare di visualizzare l’atto stesso della guerra, ma calare l’occhio di chi guarda nell’intuirla, nel sottolineare a tonalità cupe la vita di tutti i giorni, nell’attraversare lo sbiadimento continuo di una visione perché la necessità si antepone a tutto e tutti.
Sempre più spesso, a volte anche a sproposito, il senso del lavoro di document(ari)o in opere di urgenza come questa (soprattutto nel medioriente) gioca su più livelli di immagini quasi per conclamare o traslare il senso di incertezza di chi li vive. Scenari che appartengono alla memoria collettiva come alla storia di un Paese, spuriate dalla propaganda delle trasmissioni televisive e dall’ambiguità di altri fotogrammi del passato che nulla appaiono avere a che fare a quella situazione. L’interrogarsi allora, prima del senso stesso e/o del tema del documento, diventa chiedersi cosa ci sia di più reale nel guardar(si) n/della nostra coscienza e come simulacri di altri tempi e spazi siano oramai diventati parte della nostra storia collettiva corrodendo l’immaginazione. L’asse Siria/Armenia è così presto fatta, condensando la finzione cinema – l’uso di Jodorowsky su tutto – come chiave potenziata di visualizzazione dell’oggi attraverso la rappresentazione grottesca e surreale del dolore. Non solo l’archivio dunque, ma una struttura connettiva di altre immagini per vivificare un presente che rischia di sprofondare nel (non) senso della banalità del male. La testimonianza non può che essere in contatto con la finzione filmica, soprattutto oggi, quando la stessa realtà definita in un’inquadratura (basti pensare alle camere di controllo o agli strumenti militari) è gia studiata nella sua fi/unzione
Il presente è così offuscato, traslato continuamente tra l’immagine “reale” e l’irrealtà di ogni immagine. Solo la violenza trova lo spazio di rivendicazione estetica, solo l’idea di fare un film ne presuppone lo stesso fallimento perché costantemente in ritardo sul farsi delle situazioni. Rimane poco probabilmente, se non quell’esigenza di partenza che nulla preclude e che tutto lascia nella provvisorietà di una guerra che neanche gli stessi protagonisti possono conoscere. Nella lente rotta con cui Kaprealian riprende dalla sua finestra c’è la perdita del fuoco fisico di un’immagine, ma anche la debolezza di uno sguardo che non può più avere direzione e comprensione. Non serve fare film sulla rivoluzione, ma forse ormai nemmeno film rivoluzionari, pare dirci questo scorcio da un interno. Serve solamente chiedersi il perché non ci si interroghi su quello che dovremmo vedere, e in fondo il nostro complice e agghiacciante nascondere uno sguardo potrebbe già essere una caustica risposta. Houses without doors è da vedere, da pensare e da lasciar scorrere come l’offuscarsi di un oggi che non possiamo più limitarci a risolvere con l’inetto avverbio “complesso”.
Erik Negro