Fra gli infiniti scaffali di libri c’è in bella vista La fattoria degli animali, in quella casa da cui il protagonista di House arrest, ennesimo intellettuale oppositore incastrato dalle stesse corruzioni di quel sistema che aveva osato mettere in discussione e attaccare frontalmente, non si può allontanare se non a bordo di una volante. «Però preferisco 1984», sentenzierà il poliziotto incaricato di sorvegliarlo durante gli arresti domiciliari cui è costretto in attesa di giudizio e intimidirlo per convincerlo a confessare quell’appropriazione indebita che non ha commesso, «è più vicino alla nostra realtà». Una realtà consapevolmente orwelliana di videocamere, microfoni e minacce, una realtà di menzogne, allusioni e ricatti, una realtà di reati di opinione e repressione in uno Stato ai limiti della dittatura. Una realtà in cui tutti sanno esattamente come funziona ma non possono fare altro che sottostare, schiacciati dal potere e dai suoi abusi serenamente perpetrati alla luce del sole. Non la Russia zarista o stalinista di ieri, ma quella putiniana di oggi, che Alexei German jr. attacca frontalmente in un un film piccolo, pandemico, forse produttivamente minore all’interno della sua ambiziosa filmografia, eppure straordinariamente coerente nel suo percorso di attacco sistematico all’autorità e ai suoi soprusi, presentato in questi giorni in prima mondiale al 74mo Festival di Cannes nella selezione ufficiale di Un Certain Regard. Un film girato integralmente, tre anni dopo il ritorno al passato prossimo con cui sfruttava la storia del pittore Dovlatov per metaforizzare apertamente le censure subite dal padre (del) regista, fra un appartamento e i dieci metri del giardino antistante, in cui perfino le udienze e la sentenza rimarranno fuori campo proprio come rimarrà rigorosamente fuori campo quel sindaco – lui sì realmente ladro, fra fatture contraffatte e bilanci taroccati, e realmente malavitoso nel mandare sicari a picchiare e a tentare uccidere il protagonista – a cui lo stimatissimo professore universitario David, unico in città a conoscere cinque lingue e maggiore esperto di musica, arte e letteratura, da sempre si oppone con accuse fondate ma senza prove, con una cultura che ben poco può nel suo aperto scontrarsi con il potere, con un’onestà spiccata ma che nessuno o quasi si fa il minimo problema a mettere in discussione, con una capacità dialettica resa vana da un auditorio che nemmeno dopo essere stato brutalmente corretto dall’intellettuale alla finestra si convince di come Delitto e castigo sia di Dostoevskij e non di Tolstoj, e con una spiccata e sagace ironia che nessuno – «perché proprio uno struzzo?» «E perché no?» – sembra essere più in grado di cogliere. La macchina da presa rimarrà sempre nella casa, fra gli ambienti e i piatti sporchi, fra i libri e i dipinti, fra i dischi di classica e le fotografie, fra i ricordi di un’esistenza e gli striscioni di protesta alla finestra. Senza mai spostarsi dall’isolamento forzato e dalle coordinate spazio-temporali in cui ritrovarsi obbligati a rivedere la propria vita, nel disperato tentativo di elaborare una strategia di difesa perfettamente consci che servirà un miracolo per evitare il carcere da innocente, e che forse, in un sistema così profondamente marcio o più semplicemente nelle bizze più beffarde del caso, non basterà nemmeno quello.
Era stata una vignetta di David che ritraeva il primo cittadino intento a fare sesso con uno struzzo, l’origine del fallo di reazione e delle false accuse/false prove che lo hanno investito. Chiuso in casa e umiliato al punto di non potersi nemmeno lavare, visto che bagnare il braccialetto elettronico innestato sulla caviglia o anche semplicemente coprirlo con un sacchetto aveva già fatto intervenire una volta le teste di cuoio. Fino a quando sarà il taglio anche dell’acqua a togliergli ogni dubbio in merito. Nemmeno al funerale della adorata madre con cui ancora discerneva da due differenti punti di vista di libertà, democrazia, rivoluzione e restaurazione lo lasceranno presenziare, preferendo semmai provocarlo fino a poterlo minacciare di denuncia per aggressione a pubblico ufficiale, e persino la sua dottoressa riceverà pressioni per smettere di curarlo fino a estorcergli la confessione. Forse le stesse pressioni ricevute dal colleghi che compatti lo hanno scaricato, o forse non sono nemmeno servite ed è stata una loro decisione, conformisti come quel vecchio cane che ogni giorno gli piscia impunemente sul letto o come quel proletariato contemporaneo tanto incancrenito dalla propaganda che legittima l’ignoranza da non avere ormai più nulla di rivoluzionario, né tanto meno di solidale. Un popolo per il quale la distanza culturale dagli intellettuali dissidenti che dovrebbero ispirarlo è diventata così incolmabile da deflagrare in terrore, in odio generalizzato verso ciò che non vogliono più nemmeno provare a capire, trovando dall’altra parte l’egocentrismo di una classe intellettuale (che poi, se vogliamo, è la triste storia della sinistra anche in Italia) che a sua volta ha perso la capacità di parlare al popolo, troppo impegnata a celebrare se stessa e la propria convinzione di essere superiore. Solo qualche giovane studente andrà ancora a trovarlo nel giardino di casa per esprimere la propria immutata stima, per discutere, per imbracciare una chitarra e cantare insieme, e solo l’avvocatessa Anna, donna picchiata dal marito e snobbata da una società profondamente sessista, crederà in lui al punto di rinunciare a una parte dell’onorario o per lo meno posticipare il versamento, pronta a combattere per la giustizia, per il principio, per una questione d’onore, per l’autodeterminazione che entrambi meritano in un rapporto che diventa sempre più franco, intimo, aperto all’umanità frastagliata di rimorsi per gli errori passati con una figlia tossicodipendente che si ora ripresentano ribaltati in una situazione che non pare avere via d’uscita. Certo, ci sarebbe l’illusione dell’ex moglie ancora in buoni rapporti con David, il cui attuale compagno appaltatore lavora con il comune e potrebbe forse andare contro i propri interessi e dimostrare le ruberie del sindaco, ma la falsificazione dei bilanci parte già dal budget, e nemmeno lì si trovano le prove con cui contrattaccare. Occorre difendere, nella consapevolezza che «la vita umana inizia dall’altra parte della disperazione», come scrisse Jean-Paul Sartre nella citazione dalLe mosche che apre il film. Ma è giusto che la difesa rimanga di fatto fuori campo, consapevolmente confinata nell’alveo dell’impossibile, dell’illusione, del sogno, del cinema. Lo schermo dell’insperata assoluzione, della rimozione del sindaco criminale e della sua interdizione dai pubblici uffici, delle scuse del poliziotto che tanto lo aveva pressato e del ritorno di quella figlia che, nonostante tutto, mai aveva smesso di volergli bene. Ma è solo un’apparenza, è solo finzione, perché al di fuori dell’illusione dell’arte lo spazio rimasto nella realtà non può che essere quello per l’ennesima beffa, per la tardiva consapevolezza di un dolore vissuto invano, troppo concentrati sul proprio ego per rendersi conto della necessità di superarlo. Perché «non ci sarà mai un tempo migliore» in cui realmente cambiare uno stato di cose ataviche, generazionali, sempre identiche e sempre sbagliate. Non in Russia, per lo meno, e non certo oggi. Ci si può solo morire, e forse commuoversi.
Marco Romagna