HORACE AND PETE (2016), di Louis C.K.
George Carlin, Richard Pryor, Bill Hicks, Bob Hope, Eddie Izzard, Bill Burr, Jerry Seinfeld, Lenny Bruce, Ricky Gervais, Chris Rock, i vari uomini da late-show da David Letterman a Jay Leno, a loro modo anche Eddie Murphy o Jim Carrey o in tempi più recenti anche Aziz Ansari: ecco una lista di grandi e importantissimi comici nella storia che si sono dati all’arte dello stand-up, poco diffusa in Italia (un tempo c’era il Benigni dei tempi d’oro, ora c’è Montanini o per chi si accontenta di poco Karim Musa, in arte Yotobi), ognuno rappresentativo di un proprio ambiente, di una propria epoca, di un proprio paese, di un proprio modo di pensare. Eppure nessuno, al giorno d’oggi, potrebbe essere popolare quanto l’americano Louis C.K., nome d’arte di Louis Székely (cognome di origini ungheresi), cresciuto in Messico ma diventato celebre negli Stati Uniti d’America, assiduo collaboratore di alcuni tra i succitati e residente a New York. Regista e sceneggiatore di vari film corti televisivi e di alcune commedie indie, si è fatto poi una piccola carriera come attore caratterista in film hollywoodiani con piccoli ruoli, apparendo ad esempio in American Hustle (2013) di David O. Russell e Blue Jasmine (2013) di Woody Allen. Dopo aver aumentato la propria fama a livello mondiale con vari show a giro per l’America (spesso degni di nota per una prepotente e spesso volontariamente disgustosa autoironia o ispirati dal tipo di commedia sociale di George Carlin) e con un piccolo ruolo nella sit-com mockumentary Parks and Recreation (2009-2015) nel quale tra i protagonisti c’è anche Ansari, ha deciso di darsi alla regia, alla sceneggiatura, al montaggio e alla recitazione in Louie (2010-), serie pseudo-autobiografica per ora alla quinta stagione che comincia con toni da commedia surreale e che lentamente è diventata sempre più drammatica. Una serie che inizialmente sembrava prendere parte delle proprie idee dalla serie-cult di Jerry Seinfeld (chiamata, appunto, Seinfeld (1989-1998), serie molto simile a Friends (1994-2004) ma mai arrivata in Italia in cui le avventure del comico e dei suoi amici sono intervallati da sketch da lui recitati sul palco) è diventata lentamente uno dei prodotti più interessanti dell’intero palinsesto televisivo, con una visione surreale della società americana, una serie di guest star di alto ordine (compreso David Lynch!) e uno strano senso poetico, raro per una serie commedia.
Ci si chiede, però, qual è il punto di Louie: dove vuole andare a parare, che lato della commedia di C.K. vuole mostrare. Quando, il 30 gennaio, senza alcun preavviso né alcuna pubblicità, il comico ha pubblicato sul suo sito ufficiale il primo episodio della webserie Horace and Pete (gratis per gli iscritti al sito), un’idea che può venire in mente è che sia un prodotto minore rispetto a Louie, un suo poco ambizioso affluente, magari fatto come allenamento per episodi futuri. Ma dopo la visione non può che venire il sospetto che sia il contrario, e che Louie non fosse altro che una specie di allenamento per quest’unica stagione autoconclusa di 10 episodi che è tra i prodotti seriali più potenti e importanti che possano apparire sui vostri schermi. Anch’essa diretta, sceneggiata e interpretata da C.K., Horace and Pete è un esempio clamoroso di vera e propria serie d’autore, con la quale il comico dà sfogo soprattutto ai propri istinti più drammatici, anche tragici, lasciando al divertimento pochi, sporadici momenti improvvisati di dialogo da bar, spesso coinvolgendo il comico Steven Wright (che potreste aver visto nel segmento con Benigni di Coffee & Cigarettes (2000) di Jim Jarmusch) nel ruolo dell’eccentrico e riservato Leon. La semplice trama gira attorno al pub “Horace and Pete”, fondato nel 1916 dai fratelli Horace e Pete Wittel, che da allora hanno sempre chiamato la loro progenie maschile con i nomi Horace e Pete in modo da far loro continuare l’eredità del bar con lo stesso nome. Morto Horace VII, il pub viene affidato ai suoi figli Horace VIII (Louis C.K.) e Pete VIII (Steve Buscemi), insieme ai quali v’è il sopravvissuto e anziano Pete VII (Alan Alda), detto zio Pete. Horace vive una situazione famigliare complicata: reduce dal divorzio da Sarah (Laurie Metcalf), che lui ha tradito con la di lei sorella dopo averle ingravidate entrambe nello stesso periodo, è rimasto con due figli, uno, Horace IX (Angus T. Jones), che non gli vuole rivolgere la parola, e una, Alice (Aidy Bryant), obesa universitaria, che il padre vorrebbe includere nella propria vita, non senza difficoltà. Pete, invece, è vissuto in soli due posti nella propria vita: lo stesso pub, dove lavora da sempre, e un ospedale psichiatrico, dove era internato a causa di sue frequenti allucinazioni da incubo che l’hanno portato alla follia. Da qualche anno prende un farmaco, il Probitol, ma nei pochi momenti di non-lucidità la sua tristezza disperata è impossibile da contenere. La sorella dei due, Sylvia (Edie Falco, nota come la Carmela Soprano de I Soprano (1999-2007), magnifica serie TV HBO), detesta il pub e vorrebbe chiuderlo e venderlo per finanziare le cure per il suo cancro al seno. Con un aplomb e un’asciuttezza teatrali, la serie, ambientata quasi interamente nel pub e negli alloggi di Horace e Pete all’interno di esso, è un concentrato di dialoghi profondi, tra la filosofia da bar e la poesia più concreta, che descrivono una serie di conflitti: quello tra la durezza cupa ma funzionale della tradizione e la distruttività del postmoderno nell’epoca del digitale, di cui è necessaria e importante solo l’idea di eguaglianza; quello tra la normalità della follia e la follia della normalità; quello tra il silenzio e il caos; quello tra lo stile di vita e l’immaginario politico conservatore e l’impostazione liberale (e da questo punto di vista è essenziale il ruolo di un frequentatore assiduo del bar, Kurt, interpretato da Kurt Metzger, nichilista che si fa di acidi e che giustifica con ironia e pessimismo gli elettori di Donald Trump); quello tra sesso e amore, e così via. I dialoghi da bar sul sesso o sui candidati alle presidenziali statunitensi si incrociano con lunghissimi confronti vis à vis (un esempio è il terzo episodio, composto da tre quarti d’ora di dialogo tra Horace e l’ex-moglie, sostanzialmente con un solo alternarsi di campo e controcampo di primi piani dei due) che, episodio dopo episodio, diventano sempre più svuotanti e tragici, fino ad una conclusione shakespeariana deprimente a dir poco.
Ogni episodio, accompagnato da un tema musicale melanconico composto e cantato da Paul Simon (di Simon & Garfunkel), è una perla di commedia umanista che fa ridere poco, con grandi attori, grande (semplice) regia e grande, grandissima sceneggiatura. La galleria dei personaggi, la maniera in cui si incastrano nella trama onirismi e analessi, l’intensità bergmaniana dei dialoghi rendono questo prodotto davvero un capolavoro degno di nota su di una piattaforma come quella delle webserie che raramente porta a risultati davvero alti, grazie alla capacità di Louis C.K. di rendere con drammaticità il suo mondo interiore, la conflittualità di un mondo composto da più individualità e più verità in continuo scozzo. Il tutto si risolve in maniera vaga, con il futuro che scompare all’orizzonte e l’allucinazione che vince su di una realtà, comunque, profondamente triste e violenta.
Nicola Settis