“Il carattere sgradevole proviene dai tempi in cui le rudimentali fondamenta dei rapporti umani erano ancora da costruire, l’altro vive sul piano più alto di tali rapporti, il più lontano possibile dalla belva selvaggia che infuria e urla nei sotterranei, rinchiusa sotto le fondamenta della cultura”
Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano
Probabilmente nemmeno Nietszche nella sua debordante e visionaria catalogazione dei caratteri umani avrebbe pensato alla deriva dei nostri giorni, o almeno alla provvisorietà e alla finitezza che le opere dell’uomo caratterizzanti il nostro pianeta avrebbero subito. Nikolaus Geyrhalter, in Homo Sapiens, parte da tutto ciò, dalla riconsiderazione della finitezza e la fragilità umana nella condensazione dei rapporti sociali ai tempi della fine dell’era industriale, mostrando come la stessa declinazione antropologica e morale dell’uomo debba necessariamente scendere a patti con l’impressionabilità continua del mutamento spaziale che egli esercita e che spesso abbandona. L’interrogarsi su questa soglia sporgente, scivolosa e drammaticamente urgente non può prescindere da una completa e disincantata deriva memoriale dell’ideale, sentimentalmente ancestrale nella possibilità stessa che l’uomo vuole esercitare. Ciò che muove tutto (anche la riproduzione come la riproducibilità) è l’atto dell’immortalità della propria presenza fisica in un luogo, il lasciare un ritratto duraturo del proprio passaggio, che ossimoricamente lui stesso già ora non è più in grado di conservare. E così l’esigenza necessaria di ritrarre tutto ciò al confine fra il documento realista e l’affresco apocalittico, dove tutte le assenze diventano strumento percettivo fondamentale di interpretazione del set che noi stessi abbiamo sovrastrutturato e che ora lasciamo al corso del tempo. Che sia un cinema, che sia una chiesa, che sia un parco acquatico, che sia una casa, in ogni parte del mondo.
Nel corso evoluzionistico del genere, la sedentarietà ha rappresentato l´esigenza sociale della condivisione e dell’utilizzo di spazi (privati, sanitari, educativi, religiosi, comunicativi, cimiteriali), ma nello stesso momento questa evoluzione antropocentrica moderna e contemporanea -che non tiene conto della tecnica, ma che si sforza di interpretare solo la tecnologia- ha creato enormi spazi di scarto in nome di una consumistica fruizione funzionale del territorio incentivata dall’incremento dello sviluppo. L’abbandono di questi luoghi (che sarebbe riduttivo definire solamente “fisici”) ha ri-portato la natura ad occuparsi al loro interno, avvolgendoli in una forma quasi astratta, più selvaggia, primitiva e incombente. Ora è lei ad abitarli, tra foglie e vento, animali e neve, lei dirige questa sinfonia per noi quasi cacofonica ma sensibilmente autoctona e necessaria nel creare un’intimità che rilassa e accoglie, quanto inquieta perché terribilmente distante. Come gli unici uomini inquadrati nel film, incastonati in un mosaico, immagini che mostrano come gli esseri umani hanno voluto vedere se stessi, come volevano essere pensati e ricordati, ed ora cancellati dall’acqua che scivola dolcemente sopra le figure, a erodere schegge di vita e memoria.
Geyrhalter sa benissimo che per concentrarsi su tutto ciò è necessario ben più che un passo indietro, ricercando in questi scat/rti, i resti sensibili, ciò che gli esseri umani hanno lasciato dietro di sé, evocando l’immagine di una specie che ha accuratamente segnato il suo territorio in ogni angolo del mondo. Non ha senso interrogarsi su dove e quando siamo mentre lui ci porta all’interno di questa decadenza, sono solo i quadri e i suoni (tecnicamente magistrali) a raggrumare il senso della deriva; allo stesso modo questo meccanismo di trasporto spiazza lo spettatore lungo una durata che diventa improvvisamente impressionabile e profondissima. Ma questo punto di partenza, ontologicamente, ne segna anche la sintesi, ovvero la completa realizzazione del senso stesso che questo passaggio lascia, che cosa rimarrà dopo l’estinzione umana. Anche per questo motivo, questo film funge da enorme telescopio alla rovescia, con cui l´autore pone l’occhio stesso in distanze siderali, e con suprema indifferenza quasi archeologica descrive questa topografia del terrore, proprio come se i destinatari (in/di un futuro diverso) potessero concepire questa enorme trasformazione in cifra, segno, simbolo, codice nel tentativo di una drammatica ed ultima comprensione. Si, perché probabilmente è un senso di nostra follia junghiana l’idea dell’occupazione/abbandono quasi come se ad un atto per forza dovesse corrispondere il suo opposto, in una dialettica apparentemente legata ad una forma consumistica ma profondamente fondata da turbe ancestrali di definizione del territorio. In fondo anche in questo, come negli altri film di Geyrhalter (a partire dall´ultimo e straordinario Uber de Yahre), il protagonista è l’uomo e la sua mancanza; tracciando la latitudine dell’umanità per l’azione, ne realizza già una potenziale e idealistica retrospettiva a priori, che considera l’incapsulamento del passato, la vacuità del presente e l’oblio del futuro. Ciò a cui assistiamo è solo una narrazione minimale della finitezza e della fragilità umana, forgiata in una durezza a tratti arrogante ma estremamente poetica, uno scenario inquietante in cui la vita fatica ad essere evocata, la descrizione di una mancanza che chiede a noi stessi di esser(n)e testimoni. Infine questo film è esso stesso uno spazio, che non è disposto ad assecondare il proprio tempo per sparire completamente, e uno sguardo critico all’indietro sull’umanità non può prescindere dalla strada, dalla ricerca, dall’andare nei luoghi, appunto. Nell’ultimo fotogramma la nebbia copre e nasconde un’immensa struttura, si impossessa dello schermo; una nuova pagina bianca da scrivere colma di consapevolezza del momento, del presente, di noi e allo stesso tempo un timido inno all’umanità stessa e alla sua affascinante e continua controversia.
Erik Negro
P.s. Avevo iniziato a scrivere questo articolo e lo avevo praticamente finito, sul computer della hall dell’albergo. Esco per fumare una sigaretta prima della revisione, torno e il computer è spento, tutto perso. A un iniziale scoramento, dopo un whisky e altre tre sigarette, l’ho riscritto da capo, forse più brutto, sicuramente più assonnato del primo. L’ho riscritto per un semplice motivo, perché l’impiegata dell’albergo mi dice che domani questo computer verrà portato via, non funziona ma non lo riparano perché non serve più. Dedico questo pezzo a lui, un altro spazio abbandonato da noi uomini sapienti(?).