L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, nel giorno che avrebbe dovuto segnare l’inizio della presidenza Biden con la ratifica dell’elezione vinta, è probabilmente l’evento più rilevante accaduto in quel Paese dall’11 settembre 2001, con l’attacco terroristico al World Trade Center newyorkese. Simbolicamente (e politicamente) persino più importante nelle politiche interne statunitensi, anche se il bilancio di danni e vittime si è rivelato alla fine fortemente inferiore. Centinaia di cittadini inviperiti, il numero di forze dell’ordine deputate alla protezione dell’edificio insufficiente, una febbre da assalto all’arma bianca che contribuisce a fomentare gli animi già esacerbati. Abbiamo visto quelle scene da tanti punti di vista: le telecamere delle varie emittenti posizionate sul sagrato, quelle a circuito chiuso all’interno del Campidoglio, persino alcuni estratti dalle riprese delle body-cam sui caschi degli agenti di Polizia che fanno da controcampo alla cinepresa con cui sono pedinati i protagonisti del resto del film. Ma mai, prima di guardare Homegrown, avevamo osservato il tutto “embedded”, dall’interno, insieme ai manifestanti che conquistavano l’improvvisato avamposto scalinata per scalinata, metro per metro. In competizione alla Mostra di Venezia 2024, nella selezione della Settimana Internazionale della Critica, il film del giornalista e reporter Michael Premo è probabilmente uno dei film più “importanti” dell’intera selezione di quest’anno, e un plauso va tributato alla delegata generale Beatrice Fiorentino e alla sua squadra per averlo preso. Con piglio giornalistico e qualità cinematografica di tutte le componenti, tecniche e non, il film scruta delle realtà in continuo mutamento e sempre più in totale subbuglio senza giudicare chi si trova davanti ma cercando d’indagarne gli intimi segreti, le complicazioni di vita e familiari, la confusione ideologica più totale. I cosiddetti Proud Boys MAGA (Make America Great Again), gruppi eterogenei nati inizialmente come sostegno nel quadriennio alla presidenza di Donald Trump e poi sempre più “contro” (il Black Lives Matter, gli Antifa, i vaccini per il Covid…), sono prevalentemente composti da proletariato bianco, sempre più ai margini della società statunitense e unico gruppo etnico, seppur maggioritario, che deve assumere su di sé le proprie insoddisfazioni e sconfitte senza la possibilità di esternalizzarle e rimandarle a colpe storiche pre- e post-novecentesche, persone progressivamente staccatesi dall’area politica lib-dem (quella teoricamente deputata a promuoverne gli interessi) e hanno individuato nell’alt-right l’area di attivismo politico privilegiata. Un distacco iniziato nella seconda metà degli anni Sessanta ai tempi della guerra del Vietnam, quando i reduci “costretti” da classe sociale e bassa scolarizzazione a partire per il fronte venivano accolti, al momento del ritorno a casa (per chi ce l’ha fatta), a sputi e contumelie dai ragazzi contestatari che perlopiù avevano scansato il fronte in quanto iscritti all’università. Un distacco profondo mai più riassorbito, e che segnava la grande differenza con la generazione dei padri, accolti da liberatori dopo la “giusta” seconda guerra mondiale e che, grazie a politiche atte a reintegrarli immediatamente come membri attivi della società dalle presidenze Truman e Eisenhower, contribuirono all’ultimo rilancio del cosiddetto sogno americano, da lì in avanti incancrenitosi progressivamente e irrimediabilmente, complice anche la galoppante crisi dell’industria pesante e automobilistica. Risposte semplici a problemi complessi, individuazione continua di nemici interni ed esterni, fomento di ogni paura mentre si forniscono le apparenti soluzioni: è con queste armi, e tante altre ancora, che il populismo trumpiano si è pian piano creata questa brigata di sostenitori acritici e pronti a tutto, anche alla sovversione di quelle stesse leggi e impianto democratico che, è bene sempre ribadirlo, furono e sono pensate (quando funzionanti) per tutelare il debole dal forte.
Tornando all’opera, Premo e la sua troupe si sono infiltrati all’interno di queste realtà, hanno girato più di quattrocento ore di materiale pedinando otto persone: nel montaggio finale ne sono state selezionate tre, quelle ritenute più adatte al discorso che il cineasta aveva in testa. Un futuro padre recentemente politicizzato nel New Jersey, un veterano dell’Air Force che organizza i conservatori nella città di New York, un carismatico attivista texano: mondi contigui ma diversi tra loro, anche a tratti in maniera profonda. La camera li segue nel loro privato, in famiglia, e la pulizia e chiarezza nella selezione dei materiali (da segnalare lo splendido lavoro delle montatrici Kristen Nutile e Shilpa Kunnappillil) ce li fa comprendere profondamente, persino nelle insensatezze logiche che ne punteggiano l’agire. Chris, il futuro padre, sente di dover fare qualcosa, qualunque cosa, perché il nascituro erede possa vivere in un mondo migliore e si getta completamente allo sbaraglio insieme ai Proud locali, provando sulla propria pelle l’eccitazione della partecipazione politica ed il ruolo da attivista, mai sperimentate precedentemente. Modifica il suo furgone per trasformarlo in uno spargi-vernice e vandalizza la scritta BLM in centro a New York, si arma fino ai denti, nonostante le reprimende della moglie perennemente fuori scena (sinoamericana ed infermiera “invisibile” – mai inquadrata – in un ospedale Covid mentre il coniuge sbraita contro stranieri e pandemia senza minimamente afferrare la contraddizione), è tra i primi a prendersi in faccia lo spray al peperoncino sulle scalinate del Campidoglio, con un’innocenza quasi fanciullesca rimane sbigottito quando la legge arriva a chiedere il conto dopo qualche mese. Perché il movimento è così: ha introiettato lo slogan Antifa senza più collegarlo al suo senso primigenio (“Fascista io? Mio padre ha combattuto quei porci, antifa vuol dire essere favorevoli ad anarchia e comunismo”), in alcune sue componenti. Qui l’ex Navy Seal vorrebbe dialogare con la comunità black e rigettare l’etichetta di suprematismo bianco, è convinto che quelli che stanno finanziando l’economia a spese dei lavoratori siano gli unici amici del lavoratori stessi, e via così di contraddizione in contraddizione…
A troneggiare su tutto questo, il tycoon Donald Trump, il suo ex consigliere e capo della comunicazione Steve Bannon e tutta la galassia di disinformazione che ha una delle componenti principali negli hacker provenienti dalla Russia putiniana, in grado di orientare opinioni pubbliche ed elezioni per mezzo di una marea di bot e di click fasulli. L’inganno di sempre insomma, solo in forme nuove e tecnologicamente evolute, la legge e ordine mutuata nell’autoritaristico “è legge quello che dico io, l’ordine è eliminare quelli che mi danno fastidio o che non riesco a capire”; tanto che i Ragazzi Orgogliosi rimangono delusi dal mancato e incondizionato appoggio di Trump a cose fatte, quando l’assalto è stato rintuzzato e si approssima il coprifuoco (che ricordi, vero?) delle 22 che caratterizzò la seconda ondata Covid dell’autunno/inverno 2021. Premo, come in una sorta di antidoto all’idea giudicante di documentario di Michael Moore (esplicitamente nominato nei suoi danni a lungo termine), si pone l’obiettivo della documentazione storica di eventi incredibili, di fissare lo stato delle cose per politologi, antropologi e semplici spettatori presenti e futuri, di fermarsi a riflettere un attimo per fermare l’eterno presente in cui siamo precipitati nell’era social — e così facendo diventa un’alternativa ‘guerrilla’ al cinema d’osservazione di Wiseman, interessato a raccontare l’America non rappresentata, non acculturata, nascosta ma predominante. Tutti obiettivi raggiunti grazie ad una sapiente scelta della giusta distanza del punto di vista, alla capacità di organizzare una narrazione compatta, avvincente e progressiva, con il finale ancora più inquietante del culmine rappresentato dai momenti della manifestazione volta a contestare il risultato elettorale che sfocia nell’assalto rabbioso all’istituzione democratica. Perché, proprio negli ultimi minuti, assistiamo a litigi e violenze minimi, di strada, in una piazza qualunque, che possono quindi accadere quotidianamente e lontano dall’occhio dei media, rappresentativi di un clima polarizzato forse irrimediabilmente, con due Americhe che non riescono più a parlarsi, a condividere il desco, a tentare di spiegare all’altra le proprie rispettive ragioni. Fascisti e comunisti con gli appellativi svuotati dell’accezione novecentesca e pronti a farsi nuovi/vecchi contenitori, e l’unica speranza sembra riposta nella generazione Z, apparentemente fuori da queste dinamiche e che osserva i propri padri/madri e fratelli/sorelle maggiori accapigliarsi con malcelato distacco. D’altra parte, e la Storia ce lo insegna ciclicamente, gli unici capaci di portare la guerra sul territorio americano sono proprio gli stessi cittadini, dalla rivoluzione fondamentale fino alla Guerra Civile e ancora oltre arrivando a oggi. In un modo giusto, gli Usa si specchierebbero nelle proprie debolezze premiando il film come miglior documentario ai prossimi Oscar, ma l’impressione è che (anche) questo possa dipendere dall’esito delle elezioni del prossimo novembre. Probabilmente, il film più importante sullo “stato delle cose” di tutta l’81ma Mostra del cinema.
Donato D’Elia