HOKAGE (SHADOW OF FIRE) (2023), di Shin’ya Tsukamoto

Hokage (titolo internazionale: Shadow of Fire), il ritorno di Shin’ya Tsukamoto al lungometraggio e al festival di Venezia qualche anno dopo Zan (2018) e dopo la pandemia, è un film diverso se lo si vede come il frutto dell’ingegno del suo autore geniale, o come un film facente parte della storia del cinema giapponese, o se lo si veda decontestualizzato, e dunque ‘solo’ come un dramma del dopoguerra, vicino al mélo.
A rendere grande Tsukamoto, uno dei più estremi registi giapponesi e forse il più grande tra gli autori viventi dell’arcipelago asiatico (perlomeno escludendo il florido mondo dell’animazione), c’è innanzitutto il suo impegno passionale e maniacale in pressoché ogni mansione del lavoro sul set (dalla sceneggiatura alla recitazione, dalla scenografia all’illuminotecnica), in modo talmente radicale da far dubitare che per lui sia applicabile la sopravvalutazione del potere creativo del regista che di solito è una piaga dietro molta critica e molti autori ‘di tendenza’. Ma negli ultimi anni l’autore si è anche distinto per il sapiente utilizzo del digitale. Con cineprese di qualità medio-bassa rispetto allo standard dei suoi colleghi e di ciò che vediamo in sala quotidianamente, Tsukamoto esegue una quantità di inquadrature tale da dargli una flessibilità di montaggio inedita anche per gli americani fissati con le coperture. Ciò porta a film dinamici, esplosivi, in cui ciò che è minuscolo diventa gigante – tra questi ultimi sforzi digitali, Zan rimane forse il più bello, un jidaigeki in cui l’attesa della guerra coincide con l’intreccio più della guerra stessa, e le minimali tensioni psicologiche e ideologiche tra i personaggi sono il vero scontro tra samurai, il vero gesto di violenza, il vero climax d’azione dai toni esistenziali. Tutto ciò, sempre con budget ridottissimi, e la produzione indipendente firmata Kaiju Theatre che sin dall’esordio Tetsuo (1989) fa da logo iniziale nei film dell’autore. In Hokage questo lavoro di accumulo è ripetuto con le modalità più rigorose e immediate sinora: il registro del melodramma storico esplicita quali sono le immagini che interessano a Tsukamoto, l’umore disperato che vuole narrare e in cui vuole immergerci, l’alienazione, uno strazio che non lascia neanche la forza di piangere. I primi 40 minuti ambientati interamente all’interno di una singola casa minuscola sono una lezione da maestri sulla gestione degli spazi (che ricorda l’angoscia lovecraftiana dei sotterranei claustrofobici del suo mediometraggio Haze), in cui tre solitudini spaventose si trasformano in un improbabile nucleo famigliare, in cui ognuno è maschera del proprio cruccio, del proprio ruolo nella società. C’è chi vuole vendicarsi, chi vuole solo un po’ di amore, e chi ha la necessità di trovare un futuro per sé. Il dopoguerra è una scenografia decadente inventata nel salotto di casa propria. Senza Tsukamoto nel cast né, per la prima volta, le musiche industriali e ritmate del compianto consueto collaboratore Chu Ichikawa, Hokage ha qualcosa che lo rende unico nella filmografia del regista, è il suo film più intimo, quello il cui nichilismo è più adeguato a dipingere un’epoca e una relazione umana (invece che un pensiero aprioristico, un materialismo ansiogeno da cui ci si astrae solo empiricamente). È uno dei suoi film più umani, forse il più intimista di tutti, per cui persino nel pessimismo cosmico e minimalista viene ritratto un percorso quasi neorealista, con una poesia priva di compromessi o retorica spicciola. E il film riesce ad avere la sua eleganza, non dando peso enfatico al simbolismo delle armi (pistole E spade, facendo tornare in mente Bullet Ballet ma anche Zan), ora solo elementi di quest’affresco, di questa piccola parentesi del Giappone del dopoguerra.

Pochi, quasi nessuno, fa cinema classico o ‘classicheggiante’ in Giappone: Kore’eda ormai è formulaico, Kiyoshi Kurosawa alterna film dai registri quasi opposti mischiando logica autoriale e logica industriale, Miike e Sion Sono e i vari che li imitano sono sempre stati più o meno volontariamente agli antipodi di Ozu per tutte le loro carriere. E poi c’è l’animazione, che sogna, immagina, implode, e molto cinema commerciale esplosivo che emula gli anime, i manga, il videoludico. Siamo arrivati a un punto della filmografia dell’eccentrico Tsukamoto in cui ormai gli estremismi hanno subìto mutamenti drastici, sono diventati quasi archetipi – per cui Hokage sembra sublimare i simboli della storia, col consueto montaggio ipercinetico, al punto di diventare un nuovo classico. La carne umana, che nei film del regista è chiave del mondo, base materica a cui fare affidamento per cogliere cosa conta nell’esistenza, qua non si strappa, non (è) violenta; contatto fisico di tensione, ma sempre tentativo umano, empatico, proprio in quanto disperato. E la disperazione non solo torna in tutti i film di Tsukamoto ma è uno dei cardini del dramma nel cinema giapponese, o in altre parole: il cardine del mondo post-bellico che ha fatto nascere i capolavori di questo paese è sempre stata la disperazione, una disperazione nata dalla violenza e dalle contraddizioni, dalla memoria storica, dal confronto sempiterno, irrisolvibile tra spirito e materia. La disperazione è il punto di partenza e d’arrivo di Kurosawa come di Mishima o Go Nagai o Sogo Ishii o Mizutani dei Rallizes Dénudés. L’ambientazione post-bellica di Hokage è proprio la culla di quelle atrocità, l’origine di quella disperazione. Una prostituta che abita in un ristorante diroccato, in un’estate torrida e sudaticcia, che passa le giornate guardando nel vuoto e attendendo il prossimo cliente, o il suo magnaccia, o uno sconosciuto che gentilmente le offra qualcosa da addentare… un soldato afflitto da disturbo di stress post-traumatico che passa le giornate seduto nello stesso posto a non fare niente evitando di cercare lavoro o uno scopo nella vita, spaventato da ogni suono che sente… un uomo con un braccio immobilizzato che cerca riscatto e pianifica l’omicidio del suo mentore… e un bambino, un orfano che ruba alle bancarelle, e ha una pistola. Sono questi i protagonisti del film. Sono le interazioni tra loro, i tentativi di pace o speranza, a dare scopo e finalità allo spirito, a ciò che si muove sotto la superficie del terrore, della disperazione. E sono invece appunto i momenti di massima disperazione, anche quelli che si trovano negli altri personaggi (prigionieri che gridano dietro le sbarre, militari seduti per terra per strada con lo sguardo perso di un eroinomane, venditori ambulanti di cibo) incontrati dai nostri protagonisti, a esporre questa cicatrice fragile dell’intero paese di Tsukamoto, una ferita che lui sembra dirci essere ancora infetta e mai totalmente cicatrizzata.

Già nel 2014 col remake di Kon Ichikawa Nobi (titolo internazionale: Fires on the plain), Tsukamoto aveva affrontato la guerra, lo stress post-traumatico, la disperazione non solo per l’incubo contraddittorio di quel momento della Storia ma anche per la rielaborazione ossessiva di esso stesso, il cruccio dell’artista, l’occhio che guarda il mondo bruciare e può solo continuare a guardare. Quello, come Zan, era in concorso nella selezione ufficiale, e questo nuovo film che non gli è da meno, anzi forse è più appetibile e comprensibile a chi non conosce il regista, è misteriosamente in Orizzonti. È un gran peccato, perché Hokage potrebbe essere il suo film più immediato e meno complesso, quello in cui di più la costruzione raffinata e brutale della messinscena è asservita a un messaggio e a un registro comprensibili, potenzialmente universali. Qua, andando come non mai verso il melodramma, il regista concatena una serie di inquadrature tra una dissolvenza incrociata e l’altra che fluidificano il racconto, lo spazio, i personaggi. Il mondo tutto sembra un organismo diverso dentro la sala, da cui si esce, come al solito, che la realtà fuori sembra più lenta, e qualcosa dentro di noi sembra cambiato, e anche il tempo si è rotto, così che invece di un’ora e mezza sembra essere passato un quarto d’ora. Il grande cinema, in questo caso classico e moderno, minuscolo e gigantesco, può anche essere molto sintetico, e in questo caso un autore a volte filosofo e cerebrale ha preferito il rigore di una storia drammatica per esprimere la pesantezza della disperazione del suo paese. Hokage è forse il più accessibile dei suoi film, ma non va preso sotto gamba: l’occhio di chi guarda non sia giudice, ma capisca cos’è questa disperazione, e cosa bisogna guardare e salvaguardare.

Nicola Settis