HEXHAM HEADS (2024), di Chloë Delanghe e Mattijs Driesen
Non esiste un’arte più intrinsecamente fantasmatica della fotografia analogica. A partire da quel momento magico e interminabile dell’attesa, illuminati dalla luce rossa nella camera oscura, in cui l’immagine stampata prende vita un bagno dopo l’altro sulla carta fotografica. Un momento in cui l’invisibile (ri)diventa visibile, in cui un foglio bianco improvvisamente si colora di un ricordo, in cui un istante ormai passato ritorna nell’eterno presente di una riproducibilità infinita: basterà rimettere il negativo nell’ingranditore ed esporre un altro foglio. Per, magari, vedere riemergere ancora una volta dal puntinato della grana un qualche dettaglio etereo che nemmeno si pensava di aver fotografato, un’ombra, una sfocatura, un’astrazione, un movimento più veloce dell’esposizione che rimane come una striscia immateriale sul fotogramma. Quello che sembra, quello che è, quello che pare di intuire, quello che si può immaginare e raccontare. Quello che non si riesce a capire né a spiegare, e che quasi inevitabilmente finisce per inquietare nella sua apparente presenza paranormale. Senza che nemmeno ci sia necessariamente bisogno di scorgere forme definite: basta una dissolvenza, basta una rifrazione, basta un cambio di luce, basta una zona indefinita nella pasta dell’immagine. Basta uno stimolo con cui infiammare l’inconscio, e basta la “Stone Tape Theory”, espressamente citata, secondo la quale i traumi del passato rimarrebbero intrappolati nei sassi sotto forma di energia proprio come immagini e suoni diventano impulso elettrico per rimanere intrappolati sul nastro magnetico dei registratori, e i fantasmi nient’altro sarebbero che sostanziali riproduzioni che in determinate condizioni ri-proiettano quel momento emotivo. Con una storia (vera), o forse sarebbe meglio dire con una maledizione, da raccontare. Una storia oscura e affascinante riemersa da qualche parte fra il folklore locale e l’oblio, che inizia con una coppia di piccole teste di pietra, alte circa sei centimetri, trovate nel giardino della casa nuova e dissotterrate nel 1971 da due ragazzi di Hexham, nell’Inghilterra del Nord, e che prosegue con una serie di fenomeni inspiegabili accaduti prima nella loro casa e in quella dei vicini, fra oggetti lanciati e apparizioni di esseri mostruosi, e poi in quella dell’esperta di manufatti celtici a cui vennero in seguito affidati, culminati con la figlia della studiosa quasi aggredita da un lupo mannaro sulle scale interne dell’abitazione. Fino alla sparizione delle teste originali, consegnate a un altro uomo a sua volta irreperibile, e – a quanto risulta – al ritorno alla normalità della piccola cittadina. Eppure quest’ultimissima parte i belgi Chloë Delanghe e Mattijs Driesen, rispettivamente fotografa e cineasta arthouse di formazione, ma soprattutto amici fraterni sin dai tempi di scuola e appassionati divoratori di qualsiasi film orrorifico da John Carpenter e Dario Argento a Takashi Shimizu e Hideo Nakata (fino al Joe Johnston del primo Jumanji, quasi apertamente citato al momento di disfarsi delle teste gettandole in mare), decidono intelligentemente di non raccontarla, preferendo chiudere la mezz’ora abbondante della loro sorprendente co-regia Hexham Heads, film vincitore del Premio Giuria Giovani e menzione speciale della giuria SNCCI alla 60ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, con l’impossibilità di fermare il Male, destinato a rinnovarsi per continuare a perpetrarsi, destinato a risorgere (dalle acque, da una nuova terra, da un cantiere) nella nuova maledetta ispirazione di chi deciderà di intagliare due palline di cemento per dar forma a due piccole teste.
Un finale (nemmeno troppo) aperto e (ben più che) sottilmente inquietante, per un horror sperimentale che destruttura e ricodifica il genere a partire dalla spettralità endemica delle fotografie a grana grossa di Chloë Delanghe, per poi lavorare sull’inquadratura e sul sound design, sull’impressione e sugli intrecci di linee di fuga, sul fotogramma subliminale e sull’oscurità dell’occulto, sulla ricerca dell’inspiegabile e sul disvelamento del dettaglio più ambiguo e (im)percettibile, e infine sul rosso della camera oscura, sul processo di stampa, sulla grana del grande formato e del 16mm, fino al rumore di pixel nell’immagine magnetica dell’unico breve inserto in VHS. Fra ciò che si vede e ciò che non si vede ma che si cerca di mettere a fuoco, e che il contesto e il potente sonoro trasformano in tensione, suspense, brivido, jumpscare, smarrimento, aspettative tradite, inaspettata paura. Elementi che Hexham Heads, nella sua ininterrotta ricerca formale, riporta alle loro forme più basilari per poi ricombinarli liberamente, capaci di insinuarsi sensoriale e vibrante sotto la pelle dello spettatore senza mai smettere di interrogarsi sulla materialità (e sull’immaterialità) stessa delle immagini e dei formati come disvelamento (e come inganno) di ciò che è allo stesso modo materiale e di ciò che invece può esistere solo se intrappolato nella celluloide, o che forse si ritrova senza soluzione di continuità in una leggenda cittadina, in una storia inspiegabile, in un qualcosa che trascende i confini della razionalità e che è solo una questione di fede scegliere di classificare come allucinazione collettiva oppure come evento paranormale, come curiosità o come turbamento. È più che sufficiente una vecchia casa dall’architettura vagamente j-horror, a Chloë Delanghe e Mattijs Driesen, con i corrimano in chiaroscuro delle scale e con qualche porta che si apre e che si chiude, con la luce del fuoco nel camino e con i paesaggi stretti in verticale nelle bifore medievali, con le finestre che si accendono nelle notte e con il muschio che ricopre le pietre perimetrali del giardino, con qualche ombra che si sposta lentamente e con le improvvise e invece rapidissime visioni che brillano come un flash sullo schermo. Senza bisogno o quasi di attori, se non per una mano (della stessa Delanghe) che appare guantata da lupo mannaro dietro al vetro di una porta, e per il fratello della regista, Joris, che all’inizio e nel finale appare intento a (ri)fabbricare le teste: per far capire la storia basta e avanza qualche voce fuori campo, magari a citare brani tratti dal breve racconto A black solitude di H. Russel Wakefield, pubblicato nel marzo ’51 e quindi vent’anni prima degli eventi narrati, nel magazine pulp Weird Tales. Il resto è puro linguaggio per immagini, infestato e infestante fra il 16mm a colori delle riprese principali e il bianco e nero granuloso delle fotografie (fisse, mosse, espressioniste) in cui vedere apparire (o forse no) il fantasma, in cui riuscire (o meno) a intrappolarlo per l’instante di un flash, in cui attraversare il confine perturbante fra la realtà e l’immagine, fra la verità e la sua rappresentazione: potenziale distorsione ma in alcuni casi (si veda Blow Out di De Palma, ma anche i reali filmati di Zapruder dell’assassinio Kennedy) anche l’unico modo per poterla cogliere. Fra la luce e il buio, fra il reale e l’immaginato, fra il nettamente percepito con tutti i sensi e ciò che invece è dissimulato per gli occhi, ma non per il subconscio. Fra ciò che si vede, ciò in cui si crede (o non si crede) e ciò che si teme, o che forse in fondo in fondo si desidera più ardentemente di ogni altra cosa. Un mistero insolubile e affascinante come il destino, come la fiducia, come la credenza personale e popolare, come l’incantesimo di una fotografia che si materializza da un acido liquido che la bagna dopo che è stata colpita da un fascio di luce. Come il cinema, che proprio mentre scava negli elementi del genere e fa esplodere il cuore di oppressione e inquietudine, trova ancora una volta una nuova e intelligentissima via per riflettere su se stesso.
Marco Romagna