HERMIA & HELENA (2016), di Matias Piñeiro

Hermia y Helena, Ermia ed Elena, Buenos Aires, New York, il Sogno di una notte di mezza estate, o forse anche d’inverno. Il cinema di Matias Piñeiro, regista argentino classe ’82 residente da tempo negli States, è da tempo ben noto ai frequentatori del Festival del Film Locarno: un gruppo ristretto di attori, sempre gli stessi, una passione sterminata per le intime commedie di Eric Rohmer e Hong Sangsoo e per la loro ossessione nei confronti della casualità della vita e dei sentimenti, l’arma dell’ironia come (ideale) grimaldello del cuore. Quello del cineasta classe ’82 è un cinema di punti fermi eppure sfuggenti, di viaggi, di sovrapposizioni, di incastri, con il teatro di William Shakespeare come fonte di ispirazione da rielaborare perché possa aderire alla realtà di oggi. Un cinema di intenti già esplicitati, dopo il corto Rosalinda (2011), nei lungometraggi Viola (2012) e ancor più ne La princesa de Francia (2014), intenti senza dubbio nobili e almeno in parte sostenuti dall’indiscutibile talento visivo e nella messa in scena, ma anche intenti che, lo diciamo subito, mai ci sono parsi in grado di andare oltre al puro gioco metacinematografico e metateatrale, privi di un reale concetto, privi di una reale anima. Piñeiro, incallito cinefilo e narratore garbato ma forse, e questo è il reale problema, mai davvero brillante, cerca di avvicinare i propri maestri senza però averne la stessa lucidità, la stessa capacità di lettura del cuore e della contemporaneità, lo stesso intimo sguardo, mettendo in scena vicende che finiscono per rimanere come intrappolate in loro stesse, nei propri personaggi, nelle proprie esili trame incapaci di assurgere a paradigma, troppo deboli per tendere realmente all’universale, o anche “solo” per emozionare.

Questa volta, a differenza che nelle opere ‘shakepeariane’ precedenti, il regista argentino non mette al centro tanto la rappresentazione, teatrale o radiofonica che sia, quanto – anche attraverso un multilinguismo costante fra inglese e spagnolo – la traduzione, dove il passaggio da una lingua all’altra nient’altro è che il lavoro di scrittura dello stesso Piñeiro, pronto a usare il Sogno di una notte di mezza estate come una traccia, come una base, come un punto d’appoggio dal quale far partire la propria narrazione che ben poco c’entra, al di là di qualche similitudine nei ruoli e negli snodi sentimentali a incastro fra i personaggi, con la celeberrima commedia silvestre dell’autore britannico. La protagonista Camila, a ricordare lo stesso Piñeiro residente negli States da più di cinque anni, è un’autrice e regista teatrale di Buenos Aires, borsista a New York e dedita a una traduzione che forse mai verrà portata a termine; vive nella stanza che fino a pochi giorni prima era occupata dall’amica e compatriota Carmen, continua a ricevere al suo posto cartoline testimonianza di un viaggio di avvicinamento in giro per gli Stati Uniti, finirà per quasi sostituirsi a lei, vivere parte delle sue emozioni come punto di partenza per fare luce, come un osservatore esterno, sulla propria vita in costante cambiamento. Hermia y Helena è un film di dissolvenze incrociate, precise scelte e rapporti riallacciati, nel quale lo stile ellittico riporta costantemente al momento della partenza di Camila dall’Argentina: il distacco, il viaggio, il consapevole cambio di vita, fra un ragazzo lasciato alle spalle con il quale riallacciare i rapporti solo dopo un lungo silenzio e un padre biologico da ritrovare.

Giocato sulle giustapposizioni fra vecchio e nuovo – le desuete cartoline contro le videochiamate su Skype, i mesi che passano fra le dissolvenze in camera car e il paesaggio che cambia e si inneva, le fotografie a cui dare fuoco come punto di rottura quasi come se il passato e le scelte sbagliate fossero un demone di cui liberarsi –, Hermia y Helena è un incastro di flashback girato fra il sole a picco dell’Argentina e lo scorrere dei mesi newyorchino. Ma le Ermia ed Elena di Piñeiro, a differenza di quelle di Shakespeare, non hanno bisogno di filtri magici né degli interventi risolutori di Puck, sono semplicemente donne che fanno le proprie scelte, scoprendo progressivamente quello che vogliono e trovando il modo per ottenerlo. In concorso a Locarno 2016, il nuovo film del cineasta argentino si muove sulla linea del tempo e sulla vita da straniero in un Paese così diverso, mentre il lavoro di traduzione perde progressivamente importanza in un percorso di scoperta di se stessi e dei legami umani nel mondo circostante. Eppure, qualcosa stona, qualcosa appare lezioso, ci si ritrova a chiedersi quale sia il senso ultimo di un’operazione del genere, quale sia l’originalità o il messaggio che il cinema di Piñeiro vuole esprimere. Senza trovare, in sostanza, una risposta. Per essere Rohmer o Hong Sangsoo, semplicemente, bisogna essere Rohmer e Hong Sangsoo, o tutt’al più Noah Baumbach, avere lo stesso garbo, la stessa capacità metaforica, la stessa ironia amara. Altrimenti, come nel caso di Matias Piñeiro, è fortissimo il rischio di firmare film magari gradevoli, magari divertenti, capaci senza dubbio di intrattenere per la loro ora e mezza, ma in definitiva inutili.

Marco Romagna