È un antidoto in immagini alla frenesia della vita, Here. Un film piccolo, delicato e dolcissimo che, a partire dal “qui” del titolo, riflette sulla necessità di prendersi le necessarie pause in cui fermarsi, in cui osservare quello a cui in genere non si fa caso, in cui riscoprire l’invisibile, l’umano, la gentilezza, l’affetto, una complicità inaspettata, il senso di meraviglia per le più piccole, microscopiche cose. L’esperienza tattile. Un film in cui svuotare il frigo di tutti gli avanzi che altrimenti durante le ferie sarebbero andati a male e farci una zuppa da condividere con le persone a cui si vuole bene, regalandosi un po’ di tempo con ognuna di loro, parlando e sorridendo insieme prima di decidere se tornare nel Paese natale per qualche settimana di vacanza oppure per sempre. Ma anche un film in cui conoscersi per caso e all’improvviso quando lui, operaio rumeno ormai da anni trapiantato a Bruxelles («questa è la mia casa» si dirà da solo di fronte allo skyline), sfugge a un’acquazzone rifugiandosi in un ristorante, mentre lei, biologa di origine cinese, sta aiutando i parenti che lo gestiscono da dietro al bancone. Per poi, altrettanto per caso e all’improvviso, ritrovarsi il mattino successivo e passare insieme tutto il giorno senza nemmeno rendersi conto del sopravanzare della sera. Senza più alcuna fretta di ritirare la vecchia macchina dal meccanico e partire, ma al contrario fermandosi e inginocchiandosi per esplorare attentamente l’infinitesimale, per scoprire la storia, la complessità e la bellezza della «foresta in miniatura, piena di vita» che la ricercatrice studia dal vivo e al microscopio per il suo nuovo dottorato e che invece l’operaio non aveva mai degnato di uno sguardo. «Il muschio cresce ovunque ma la maggior parte delle persone nemmeno lo vede», dice espressamente ShuXiu a Stefan. «Fra cui me», le fa eco lui, che prima di conoscere la giovane biologa mai in vita sua aveva realmente ammirato né capito la più antica specie vegetale sviluppatasi sulla Terra, mai aveva pensato alla provvisorietà umana di fronte ai suoi milioni di anni, mai aveva riflettuto sulla nostra fragilità di fronte al suo eterno rigenerarsi. Mai aveva realmente cercato l’invisibile della Natura, proprio come la società mai aveva cercato e guardato lui, invisibile forza lavoro di una città eterno cantiere. È probabilmente per questo che Here, opera quarta con cui il belga Bas Devos torna per la terza volta alla Berlinale (questa volta nella sezione Encounters dell’edizione 2023, dopo l’esordio Violet in Generation e il successivo Hellhole al Forum, mentre Ghost Tropic ebbe la prima a Cannes, alla Quinzaine 2019), si apre sui palazzi in costruzione, sul lavoro delle gru, e quando successivamente mostrerà Stefan lo farà a lungo solo di spalle, mentre fuma una sigaretta sui ponteggi. Solo sul bus di ritorno verso la città verrà svelato il suo volto, chissà quale in mezzo alle facce altrettanto invisibili dei colleghi, e solo al momento del suo arrivo a casa per gli ultimissimi giorni prima di mettersi in viaggio per la Romania sarà realmente possibile riconoscerlo. Un meccanismo uguale e opposto (da una parte il cemento, dall’altra la flora: del resto, si sa, gli opposti si attraggono…) a quello che introduce ShuXiu, inizialmente solo voce di simbiosi sulle immagini idilliache della Natura, e poi occhio dentro il microscopio che ne cerca nel muschio le forme (di vita) più infinitesimali. Per due traiettorie umane destinate a procedere parallele in montaggio alternato fino a convergere improvvisamente e scoprirsi già cambiate, fino a un piatto di minestra lasciato per lei al ristorante, fino al sorriso abbozzato che le si disegna sotto le guance che arrossiscono, fino a una reciproca appartenenza che in ogni caso, che sia realmente destino ritrovarsi oppure no, ne ha già cambiato le vite, gli sguardi, le emozioni.
Perfino gli stessi luoghi, prima e dopo, sembrano diversi, e perfino le stesse frasi sul primo treno mai passato in Europa, riciclate identiche a come si erano ascoltate per fare colpo, cambiano radicalmente il loro senso, i loro sottintesi, il loro punto di vista. La loro fisicità, che poi è la stessa fisicità dei corpi, degli ortaggi e del muschio, intrappolata in quella della pellicola Kodak Super16 di Devos in un 4/3 rigoroso e abbacinante nelle sue lunghe ottiche con cui cercare la tridimensionalità e il sovradimensionamento delle piante, nei suoi lunghi pianisequenza, nei suoi rari e perfettamente calibrati movimenti della macchina da presa, nella sua certosina composizione dell’immagine (o forse sarebbe meglio dire del quadro, da qualche parte fra l’inquadratura foto-cinematografica e la tradizione pittorica) in straordinari tableaux vivants di uomini, luoghi, dettagli e figure nel paesaggio, e non certo in ultimo in un ipnotico sound design di vento, foglie, grilli, mosche e uccellini che cinguettano in lontananza riprendendosi il centro del mondo. Una regia apparentemente minimale e invece calda, idilliaca, dolce, umanissima, vicina ai suoi protagonisti, ai loro dubbi e al loro incanto, per un cinema che ricorda da vicino quello miracoloso di Gastón Solnicki, con la differenza che qui non c’è alcun fantasma (o anello di fumo proibito) da inseguire per le vie della città, ma solo corpi e materia, affetti e passioni tangibili con un nome, un cognome e un ruolo nella vita o con una classificazione in latino con cui riconoscere la tipologia, e capire perché e quando si sia formata. Stefan incontra un amico, uno zio e una sorella in attesa di rivedere in Romania la madre ormai anziana e, forse, andare a trovare quel vecchio amico finito in carcere, mentre ShuXiu passa dal microscopio alla cattedra fino al bancone sì per sbarcare il lunario, ma soprattutto per trovare la genesi dell’emozione, per non smettere mai di interrogarsi, per tentare di leggere i messaggi che la Terra nasconde nei suoi figli. Due anime pure ma (ir)rimediabilmente sole, insoddisfatte, (auto)emarginate e apolidi nel non sapere più quale sia la loro casa fra le loro origini e le loro scelte di vita, e proprio per questo così umane nella loro piena inquietudine esistenziale – lui che non sa cosa fare della sua vita e che divide il tempo e un pasto con gli altri senza sapere se sia un regalo di arrivederci o di addio, e lei che studia e classifica ogni millimetro di muschio cercando nella magnificenza dell’impercettibile il senso dell’esistenza, il rapporto fra l’uomo e la Natura, o forse un mondo alternativo di clorofilla in cui trovare riparo da se stessa, dai suoi dubbi e dal resto del mondo, come se attraverso lo studio delle piante trovasse una chiave per decifrare la gioia e lo strazio dell’umanità. Due anime alla ricerca di una stasi da condividere, di un momento di sospensione in cui trovarsi, di una passeggiata nel bosco in cui continuamente fermarsi a riflettere, a dialogare e a guardare l’ignoto fino a svelarne i misteri, le parti indistinguibili a occhio nudo, le forme nascoste di un’architettura naturalmente miniaturizzata, la magnificenza di ciò che è sotto gli occhi ma che gli occhi e il poco tempo libero sottovalutano, preferendo correre oltre. Here invece non corre da nessuna parte. Al massimo cammina, si ferma con qualcuno, riparte, ancora si arresta per guardare e poi ricomincia di nuovo la sua lenta passeggiata, per godere dell’uomo e della Natura, per apprezzare il bello e il tempo passato insieme, per respirare il simbolo intrinseco di un microcosmo e l’intesa di un legame che nasce o che si cementa. Un film di parenti e di sconosciuti, di orti privati nei giardini pubblici, di radici ricoperte di muschi, di palazzi in costruzione o già completi che progressivamente si diradano riaprendo lo sguardo verso il bosco ancora vergine. Un film di gesti gentili, di gradite condivisioni, di fascinazioni inaspettate verso ciò che non si conosceva. Un film di sogni che anticipano i rami e le foglie del giorno successivo, di affettuose carezze fraterne sul dorso di una mano, di lucciole da afferrare al volo e di tessuti spugnosi che continuano ad adattarsi e a sopravvivere a qualsiasi cambiamento. Un film semplicemente bellissimo, catartico, da portare a lungo nella mente e nel cuore. Un film che si attacca come un muschio e che non va più via.
Marco Romagna