HERBERG VAN HET GEHEUGEN (2016), di Barbara den Uyl
La storia di Kes Hin è una delle più affascinanti e idiosincratiche esperienze all’interno di tutta la storia del cinema olandese. Al di là delle sua importantissima carriera da documentarista (iniziata mezzo secolo fa), la sua importanza è fondamentale per ridiscutere completamente il ruolo e la conservazione dei propri film, e di cosa ancora possano rappresentare ora. Accompagnato dall’autrice Barbara den Uyl in un deposito del museo del cinema EYE ad Amsterdam, Hin non tanto ripercorre la storia dei suoi cento (!) film, ma tenta di definirne la genesi, le origini, cosa avrebbe voluto vedere in inquadratura rispetto a ciò che è rimasto impresso. Una retrovisione tout-court, che piuttosto di trattare la materia cinema, ne tratteggia la sua ipotesi più intima e in pratica la differenza sostanziale tra la possibilità di definire un momento e l’impossibilità della sua continua non-finitezza.
Si parte dai primi esperimenti provocatori intorno ai metà anni sessanta, passando per tutti i suoi lavori sul senso e il ruolo della guerra nella formazione dell’identità culturale olandese, per finire con la sua innata e tenera voglia di giocare con la realtà. I film di Hin trattano sempre con le anime delle persone e l’incostanza della vita nella sua determinazione come nella pratica del proprio essere. Così in questo film sono proprio gli estratti del passato a dialogare continuamente con le discussioni che si intrecciano tra autore e autrice. L’unico filo rosso di questa piccola e grande epopea rimane il senso della suggestione, lo spazio della creazione di una narrazione semplice e diretta, sempre in bilico tra la documentazione più diretta e la finzione più elaborata, perché il cinema è prima di tutto un gioco che la vita si può solo immaginare.
Nella continua serie di film sulla propria rivisitazione di una filmografia, in questo periodo di drammatico disorientamento culturale e memoriale, l’opera che coinvolge direttamente una personalità come quella di Kes Hin vive nella sua propria leggerezza di un incontro, di una visione, di una conoscenza. L’uomo è al centro mentre si spezzano i confini tra la poesia e la rappresentazione, perché l’identità viene prima di tutto. Raccontando come catturare un sorriso, come decifrare una parola, come definire un mondo altro, impariamo in un certo senso anche a conoscere noi stessi ed a interpretare un mondo in cui oramai non ci sentiamo più di appartenere. Come se tutto fosse incapsulato in quelle tonnellate di fotogrammi, in quella centinaia di bobine che non possono (più) contenere solo un film, ma tutte le esperienze e le emozioni che quel processo intimo e drammatico del set hanno portato a esistere. In fondo Hin stesso è un lavoratore instancabile, che con innocente spensieratezza sulla soglia dei suoi ottant’anni si guarda indietro, a tutto quello che ha immaginato, sperando nel profondo di poter ancora immaginare per molto tempo (e forse per sempre).
Erik Negro