HEART OF A DOG (2015), di Laurie Anderson
Turning time around – that is what love is
Turning time around – yes, that is what love is
My time is your time when you’re in love
and time is what you never have enough of
You can’t see or hold it it’s exactly like love
Turning Time Around – Lou Reed
Spesso il cinema esiste e respira come spazio privato, luogo in cui reincontrarsi come identificarsi, tempo che solidifica la memoria in immagini da consolidare, rivivere e attraversare. Allo stesso modo, molti di questi film non hanno una forma propria, vagano nella liquidità continua in attesa di una risposta, di uno spiraglio di luce tra le stesse immagini che non possono essere altro che la cariatide di una durata in movimento. La fisicità del ricordo è un atto a se, parte stessa della vita che gioca a scacchi con la morte attraverso il cinema, attraverso l’atto del vedere l’ultima immagine impressa nella pupilla come fosse la prima. Probabilmente Laurie Anderson è poco avvezza alla teoria dell’immagine cinematografica, o quantomeno non è una cineasta “pura”. Ma nel tentativo (riuscito solo in parte) di trasporre sullo schermo tutto il retroterra concettuale che spazia dalla sperimentazione alla videoarte (per rimanerne spesso intrappolata), mai dimentica cosa significhi amare, nell’accezione più intima di un ricordo che possa non svanire. Anche per questi motivi sarebbe inutile citare tutto un filone dell’avantgard-cinema dedicato a questa memorialità diaristica e personale, ma solo cercare la direzione possibile nel leggere un lavoro del genere e soprattutto scendere a patti con la vita della Anderson, per poi in fondo forse ritrovare la propria, la nostra.
Heart of a Dog parrebbe già in partenza (s)composto nel saggio, mentre travalica rapidamente in un racconto personale che esplora i temi dell’amore, della morte e del linguaggio. L’unica coordinata per tutto il viaggio è la voce stessa della Anderson, dolcissima, musicale e cristallina. Quasi una prima traccia sonora che forma dei fonemi attraverso le storie del suo cane Lolabelle e di sua madre, le fantasie dell’infanzia. In questo scenario entrano ed escono di scena (addirittura in didascalia a tratti) Wittgenstein, Kierkegaard, Foster Wallace, fino a Goya ed il misticismo tibetano. Su questa traccia si sedimentano le immagini, richiamate a definire essenzialmente un linguaggio tra animazione, 8mm dell’infanzia, fotogrammi trattati stratificati e grafica in movimento. L’ultimo codice che si inserisce è la musica, firmata dalla stessa regista, che scorre ad intermittenza per tutto il film con brani per violino solista, quartetti, canzoni ed elettronica ambient. Questo costrutto, a tratti improvvisato e non sempre funzionale, è lo scheletro che sostiene una meditazione visiva e poetica che dalla timida osservazione del quotidiano in divenire deriva sul “bardo”, il periodo di quarantanove giorni dopo la morte in cui l’identità viene frantumata e la coscienza si prepara a entrare in un’altra forma di vita. Si aprono ellissi come squarci tra il calvario infantile dell’ospedale e le lesioni alla spina dorsale fino al rischio della morte dei fratelli sul lago ghiacciato. Man mano che si scava nelle immagini dell’infanzia, nonostante siano talmente sbiadite da non riconoscerne i bordi, si trovano conservati frammenti fondamentali nel comprendere il collegamento tra eventi della realtà, autorità e memoria. Infine la metafisica del rapporto analisi/creazione, le istanze storico-politche-artistiche post 11-9, bizzarre teorie sul sonno, sull’immaginazione e sul disorientamento sono nient’altro che chiavi metaforiche sullo spazio, il tempo e l’identità. In fondo la perdita di una amore, qualsiasi esso sia, è anche la perdita di quella identità e allo stesso tempo l’interrogativo definitivo su dove tutti noi stiamo andando.
In questa tenerissima apertura del cuore, e dei sensi, c’è molta ingenuità. Dopo musica, dipinti, installazioni, scultura e teatro, immagini su schermi multipli in performance multimediali, questa è forse la vera opera prima di Laurie Anderson che cerca di collegare le storie in un film narrativo a struttura libera, ricorrendo a immagini e animazione per completare le frasi. Allo stesso modo questo pare proprio essere un passaggio quasi fisiologico dall’uso del corpo ad un minimalismo dell’occhio spesso in soggettiva con quello dell’amato Rat Terrier. I formati, come i dispositivi di ripresa, sono moltissimi non tanto per moltiplicare il punto di vista, ma per cercare di limitare la provvisorietà di un impronta diaristica necessaria dopo una mancanza. L’atto di vedere così non può non prescindere da una autolimitante deriva non-sense di accettazione del reale nella sua accezione più dura e cattiva, surreale e virale, giustificazione della magmaticità oceanica dell’epopea digitale. Tutto pare appunto più sincero quando la Anderson abbandona il suo rifugiarsi nell’ipercitazionismo intertestuale e si limita splendidamente ad aprirsi lavorando sul rapporto corpo-parola-musica-immagine, modulando e spostando continuamente i fattori formali. Questo dovrebbe essere il film probabilmente, se fosse appunto un saggio.
Ma, almeno per me, di mezzo c’è ben altro. Tutte queste parole nulla valgono con l’umanità che la Anderson mette in campo, quella delle sconfitte, delle perdite, della morte. In un attimo riavvolgi la pellicola e ripensi agli ultimi lavori della Akerman (su tutti, probabilmente, No Home Movie), ai preziosissimi rulli della Robertson, alle accettazioni di Maya Deren, la sensibilità e intimità femminile del confessarsi, davanti/dietro/in mezzo ad una macchina da presa. Nemmeno cinema terapeutico, ma rifugio verso i dolori del mondo, custode delle ragioni del cuore che solo l’occhio può conoscere. E l’ultimo fotogramma non poteva non essere di/con Lou Reed perchè “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”. Suona Turning Time Around a tutto volume, l’immagine si spezza, si taglia, si/ci ferisce per l’ultima volta. E’ alla ricerca della sua dolce metà, e proprio solo l’amore può unirla, può abbracciarla e farla lacrimare. I titoli di coda esistono solo al cinema, la memoria in qualche modo ci farà andare avanti, con le pulsioni del nostro cuore terribilmente animali da non farci annientare dalla ragione.
Erik Negro