Havarie, prima di tutto, è un’occasione per interrogarsi. È la ricerca di un punto di vista, di uno sguardo, di un pensiero che ci possa scuotere dai nostri salotti mentre il mondo procede in avaria e ogni giorno affonda un po’ di più. Presentato al Torino Film Festival 2016 in Internazionale/TFFdoc dopo aver aperto a febbraio il Forum della Berlinale, Havarie è un film che obbliga a una visione dilatata, riflessiva, una visione che porti a ridiscutere i concetti stessi di tempo e di umanità, una visione che faccia sentire in colpa per il nostro costante essere girati dall’altra parte mentre il mare, speranza o forse mortifera illusione, continua a inghiottire vittime innocenti. È un mare come infestato dalle anime delle tante, troppe persone che ci hanno perso la vita, è un mare assassino, è un mare allucinatorio, è un mare pericoloso, ma è anche l’unica speranza rimasta per ripartire daccapo, ricominciare a vivere in un altro luogo e in un altro mondo. Erano le 14:56 del 14 settembre 2012, quando la nave da crociera Adventure of the Seas avvista al largo un gommone in avaria e alla deriva con a bordo 13 migranti algerini in fuga. Avvertita la guardia costiera per far partire i soccorsi, al personale della nave viene chiesto di mantenere il contatto visivo con il gommone fino all’arrivo della cavalleria. Sarà una sosta da un’ora e mezza circa, un lento guardare l’agonia di chi è disperato e in fuga, e che ora alza un braccio per implorare i soccorsi in quel dedalo di punti cardinali in cui solo la strumentazione di bordo riesce a districarsi, e in cui l’uomo non è altro che un puntino nell’immensità del mare. Fra i passeggeri, l’irlandese Terry Diamond decide di girare un video che caricherà su youtube. Un video da poco più di tre minuti, un video in bassa risoluzione, eppure capace di portare sullo schermo tutta la drammaticità di un momento e di uno sguardo. L’inquadratura è inevitabilmente tremolante nel suo zoom spinto al massimo, poi torna indietro e l’imbarcazione dei migranti diventa un semplice puntino fino a uscire di campo per mostrare la nave da crociera, così gigantesca rispetto al gommone eppure anch’essa così piccola nella vastità del mare che la sorregge. Ma poi, come sospinti dal dramma e dalla rifrazione della luce sullo specchio d’acqua, si torna di nuovo e inevitabilmente lì, sulla bagnarola in avaria dei migranti, sui loro volti invisibili, sulle loro storie di fame, miseria, disperazione e sommosse popolari.
Quello disponibile su youtube è un filmato amatoriale senza reali velleità artistiche, “solo” un reportage diretto, il puro atto del mostrare ciò che è accaduto, come una notizia, come la testimonianza di un momento drammatico, ed è proprio qui che entra in scena il cineasta e videoartista Philip Sheffner che, in collaborazione con Merle Kröger con cui fondò nel 2001 il collettivo di filmmaker Pong, decide in Havarie di dilatare a dismisura questo filmato riportando questi tre minuti all’ora e mezza di attesa che i passeggeri e il personale di bordo hanno dovuto affrontare. Mentre scorre un fotogramma al secondo, le imperfezioni del video digitale portano all’imbarcazione dei migranti una sorta di aura fantasmatica, ora spostata rispetto al frame precedente, ora sovrapposta dall’interlacciamento dei pixel, come una striscia ancora più indefinita, come una danza all’interno dell’inquadratura che assume la drammaticità di una lentezza fuori dal tempo. È un film di riflessione, dicevamo, un film di sospensione (a)temporale dalla realtà eppure di immersione profondissima, nel quale la dissociazione fra video e audio crea una sorta di cortocircuito nel quale perdersi, nel quale pensare non solo al quotidiano dramma dell’emigrazione, ma anche al fatto che il nostro girare la testa dall’altra parte sia uno degli elementi fondamentali del problema. Se non ci fosse stato questo avvistamento casuale, sarebbero morte altre persone disperate, e noi, oltre a non poterle in alcun modo salvare, non lo avremmo nemmeno saputo. La dilatazione del filmato si riappropria del tempo necessario ai soccorsi per organizzarsi e giungere in loco, inserendo nell’audio le riflessioni e microstorie dei migranti, ma al contempo esce dal tempo, si universalizza nella sua atemporalità in un non-luogo nel dedalo di punti cardinali, portando in questa storia di emigrazione tutte le storie di emigrazione, in questa storia di attesa tutte le storie di attesa, in questa storia di soccorso tutte le storie di soccorso.
Ed ecco che la Primavera Araba, tutto sommato marginale in Algeria rispetto alla potenza che ha avuto nei Paesi vicini ma pienamente sufficiente, in unione con la povertà estrema, l’aumento dei prezzi e le politiche oltre i limiti del dittatoriale del presidente Bouteflika, fra brogli elettorali e appoggi fuori tempo massimo a Gheddafi e a Bashar Al-Asad, a costringere chi la subisce alla fuga, fino a porsi come un discorso generale sull’emigrazione e sull’insoddisfazione popolare, sui conflitti e sull’indifferenza del resto del mondo. L’Algeria, come le Filippine, come l’Ucraina: il sogno di una vita migliore per chi lascia tutto e si imbarca verso l’ignoto, con un mare spesso assassino da superare. La sceneggiatura di Sheffner, modificata più volte e radicalmente durante la realizzazione del film, alterna le registrazioni delle comunicazioni radio fra la nave e i soccorsi riportate con gli esatti tempi e intervalli della realtà con testimonianze di migranti e marinai. C’è la bambina che racconta di quando i genitori sono stati trascinati via, c’è la giovane con una scoliosi mai curata che va fino in Francia per farsi operare salvo sentirsi dire che la sua forma era ormai storica e non più operabile, c’è chi telefona a casa, c’è chi racconta di aver chiesto il visto proprio il giorno di Charlie Hebdo. C’è chi “La gente sa che sono coraggioso, non per nulla mi chiamano William Wallace” e c’è chi ha subito durante la traversata in gommone l’attacco di un aereo militare che cercava di rovesciare la piccola imbarcazione, ma questa è una storia che ovviamente nessuno confermerà mai. Havarie è una babele di lingue e storie, di ruoli e di fatti, è una canzone cantata dai migranti nel centro di accoglienza in cui chiedono in musica di ottenere il visto, è chi fugge (non solo) dall’Algeria, è il personale della nave proveniente (non solo) dal Sud Est asiatico e dai Paesi ex-sovietici in tumulto. E, a questo punto, poco importa che siano davvero quei migranti e quei marinai, perché il discorso non è più localizzato sull’unico filmato disponibile di una tragedia andata – per puro caso – a buon fine. Havarie è uno sguardo unico e disperato sull’emigrazione e su chi all’emigrazione gira intorno. È una sospensione del tempo in cui interrogarsi e drammaticamente naufragare, è una questione di sguardo e di linguaggio, è una questione di cuore e di sincero strazio. È un’immagine, è un dialogo, è una testimonianza, è un’indagine, è un percorso nei drammi, tutti diversi e tutti uguali, legati alle guerre, mentre i nostri sguardi rimangono (quasi) sempre girati dall’altra parte. Ed è il momento di sentirci in colpa, perché i troppi fantasmi che popolano il mare almeno una lacrima la meriterebbero.
Marco Romagna