HAPPYEND (2024), di Neo Sora
«Voi non siete giapponesi normali», si lascerà a un certo punto scappare il preside rivolgendosi ai ragazzi, immigrati magari di terza o quarta generazione ma non ancora cittadini a pieni diritti, che frequentano la sua scuola. Una frase che, nel Sol Levante distopico ma nemmeno troppo di un futuro talmente vicino da sembrare domani, fa eco alle dichiarazioni razziste rilasciate alla televisione dal primo ministro, fa eco alle violente repressioni delle forza dell’ordine che per le strade zittiscono con la forza qualsiasi voce osi alzarsi contro il sistema, fa eco a un’intera società sempre più destrorsa e xenofoba che, nel nome di quella supposta «sicurezza» non a caso da sempre sbandierata da ogni regime totalitario, diventa Stato di polizia, dittatura, oppressione, carcere a cielo aperto per innocenti che, nel macro nazionale così come nel suo agghiacciante specchiarsi delle medesime dinamiche nel micro di un liceo, non possono fare a meno di subirne il controllo e le punizioni. Un paradigma più ancora che una metafora, magari un po’ a grana grossa e non privo di qualche lungaggine sparsa ma non per questo meno efficace e, viste le preoccupanti tendenze mondiali, meno universale, su cui il classe ‘91 Neo Sora a un anno di distanza dal documentario Coda sulle opere del padre compositore Ryuichi Sakamoto costruisce il suo interessante esordio al lungometraggio di finzione Happyend, fra dispositivi elettronici di riconoscimento facciale e telecamere di sorveglianza collegate a un maxischermo AI installato in cortile per cui anche un abbraccio sulle scale diventa automaticamente situazione amorosa non autorizzata (figuriamoci farsi beccare con in mano una sigaretta…) e conseguente perdita di punti, e sul quale tutto ciò che un algoritmo identifica come violazione delle regole diventa dito puntato, automatico castigo, umiliazione in diretta su pubblica piazza. Anche se, a ben vedere, non è esattamente un film di fantascienza quello che il giovane regista nippo-statunitense, nato a New York e cresciuto facendo avanti e indietro con la Tokyo dell’illustre genitore, presenta fra gli Orizzonti di Venezia81. L’ambientazione di poco futura, anzi, nient’altro sono che le conseguenze più prossime e potenti di un ben preciso discorso sociopolitico sulle derive che stanno portando sempre più evidentemente il Giappone (e buona parte dell’Occidente, con tanto di elezioni americane alle porte) verso lo spalancarsi di un baratro politico e morale di sopraffazione e di razzismo, nel quale Happyend innesta un (almeno doppio, ma in realtà ben più collettivo) romanzo di formazione che è anche un’atipica commedia riflessiva e dilatata, che è anche un canto generazionale a più facce, che è anche un film sulla nascita (magari passando per l’evidente attrazione per una ragazza già politicizzata) di una ben precisa coscienza di classe con cui rileggere tutto il (proprio) mondo e decidere in prima persona (oppure no, o magari sono solo forme differenti) di resistere e di combattere, e che è anche un film su un rapporto troppo forte e radicato perché un allontanamento degli interessi, fra chi matura prima e chi invece altrettanto legittimamente, a 17 anni, gioca a fare il ragazzino nichilista e ribelle che rivendica solo il proprio diritto di intrufolarsi nei locali per ballare e magari mettersi alla console senza dovere ancora pensare ai problemi “dei grandi”, possa realmente diventare una separazione. Al massimo, ed esattamente all’opposto, può diventare un’ulteriore occasione per ritrovarsi vicini, per aiutarsi a vicenda, per decidere nel giro di un battito di ciglia (o forse di un beat sparato a tutto volume dalle casse del deejay, «se dobbiamo morire tanto vale farlo divertendosi») di sacrificarsi per l’altro e per tutta la classe.
Gira intorno alle differenti scelte dei due protagonisti Yuta e Kou, Happyend. Amici da sempre che hanno condiviso praticamente tutto, e che adesso si ritrovano ancora per poco minorenni e all’ultimo anno di liceo fra ingressi clandestini dalla porta di servizio di club privati, angoli della città in cui scorrazzare fra dischi e amichetti, e divertiti giochi con cui, da dietro uno stipite o guardando in strada attraverso la finestra, doppiare qualsiasi dialogo abbiano occasione di vedere ma di non poter ascoltare, inventandosi di sana pianta voci, parole e situazioni. Quando decideranno di fare uno scherzo più pesante del solito, ribaltando l’auto del preside per lasciarla in verticale nel cortile della scuola, la spropositata reazione del dirigente scolastico legittimata dalla «necessità di proteggere gli studenti garantendo loro sicurezza» porterà all’installazione di un sistema automatizzato di identificazione e repressione di qualsivoglia comportamento (o indumento, o tentativo di vivere) non esattamente corrispondente ai regolamenti e al protocollo, che trasformerà all’improvviso l’istituto in un Grande Fratello di telecamere, rilevatori e controllo costante da parte di un’intelligenza artificiale proprio come, subito fuori, il primo ministro di un Giappone falcidiato da uno sciame sismico senza precedenti anziché pensare a limitare i danni vomita pretestuosamente ancora una volta tutto il suo razzismo invocando l’assunzione di nuovi poliziotti per reprimere «gli stranieri che approfittano delle tragedie per delinquere ancora di più», e chiunque decida di partecipare a una manifestazione in cui dargli del fascista finisce quasi inevitabilmente per prendere qualche manganellata fra i lacrimogeni e dovere pure chiedere scusa. Eppure, nel montare di una lotta alla quale si può liberamente scegliere di partecipare o di non partecipare, ma che è impossibile lasciare dietro la porta facendo semplicemente finta che non esista, anche l’apparente disinteresse potrà invece rivelarsi la più pura e anarchica fra le forme di resistenza, che cerca nella musica il rifugio e l’antidoto da ciò che succede nel mondo e nella scuola che lo copia in tutte le sue dinamiche di autoritarismo e ingiustizia, mentre inevitabilmente ci si barcamena fra leggi inique, abusi di polizia assortiti e vere e proprie ronde di cittadini invasati dal clima di xenofobia e paura dello straniero che vanno a scrivere «non giapponese» sulle porte dei vicini di origine cinese o coreana. Un mondo in cui i compagni di classe senza cittadinanza definitiva vengono chiamati dall’insegnante, proprio come in un campo di concentramento, per numero sul registro, e fatti uscire dall’aula (prendendosi i punti di penalità del sistema automatizzato) per invitare l’esercito e far parlare ai «veri giapponesi» del programma di reclutamento. Un mondo in cui, quando il dirigente scolastico scenderà al compromesso (pur con l’ennesima condizione infame) di smantellare il sistema di sicurezza dopo la lunga occupazione del suo ufficio da parte di alcuni dei ragazzi per chiedere libertà senza accettare nemmeno un boccone di cibo dal “nemico” potente, la parte destrorsa della classe si alzerà per protestare affermando che solo chi non è sufficientemente intriso di cultura giapponese può avere qualcosa da nascondere, ormai talmente ubriaca di pregiudizi e di propaganda da volere vivere in un carcere. Eppure, proprio perché così sbagliato, fuori asse, spaventoso anche quando fra un paradosso e un gioco alla vita si ride di gusto, proprio perché in qualche modo sospeso nell’attesa costante della prossima scossa tellurica e della prossima angheria di un (pre)potente contro un povero o uno straniero, un mondo in cui è impossibile non prendere reale coscienza (ed empatia) da una parte dell’esistenza delle minoranze (etniche ma non solo) in quanto esseri umani quotidianamente calpestati, e dall’altro della potenza (politica) intrinseca dello sciopero, della manifestazione, della ribellione che costringe il potere ad ascoltare e a concedere qualcosa in più al popolo. Un mondo in cui, chi prima e chi dopo, chi dipendente dal permesso di soggiorno e chi totalmente cittadino ma non per questo molto più tutelato, chi attraverso gli slogan e chi attraverso la musica (e le confessioni prendendosi tutta la colpa, o magari una giacca ‘decorata’ con cui perculare fino alla consegna del diploma il sistema tutto) necessariamente aprire gli occhi e sviluppare la propria coscienza di classe, con la quale definitivamente formarsi come individui e mettersi in marcia a testa alta. Anche se in fin dei conti, e molto più semplicemente, quello di Happyend è un mondo a cui sarebbe molto meglio non arrivare. Basterebbe rendersi conto prima della vicinanza dell’abisso e correggere il tiro politico e umano finché si è ancora in tempo, lasciando che la sirena che avverte dell’ennesimo imminente terremoto si riveli un falso allarme, o magari riuscendo una volta tanto a essere il (sotto)proletariato stesso la scossa tellurica, che si risveglia per rivendicare i suoi diritti. Nelle scuole, per le strade, nelle urne. E non solo in Giappone. Chissà…
Marco Romagna