C’è un ben preciso sapore che rimane in bocca mentre scorrono i titoli di coda di Hanagatami, l’ultimo lavoro del maestro giapponese Nobuhiko Ōbayashi. È un sapore acre, lancinante, che mescola il dolore della vicenda messa in scena, fatta di gioventù, imperialismo, morte e bombe atomiche, con quella del commiato di chi l’ha messa in scena, e che ora firma il suo probabilmente ultimo disvelamento del dispositivo chiudendo il film sulla sua poltrona da regista, vuota, con il nome stampato sulla spalliera. Ōbayashi, fine cinefilo e uomo di cinema che in oltre mezzo secolo di attività è passato dal più puro sperimentale al narrativo passando per il super-pop degli effetti speciali artigianali e per gli spot pubblicitari, lo scorso 9 gennaio ha potuto festeggiare i suoi ottant’anni, giungendo però al traguardo molto malato, sofferente, impossibilitato a viaggiare, tanto che i suoi saluti a Rotterdam sono stati affidati a un videomessaggio proiettato in testa al film. Sente evidentemente vicina la fine Nobuhiko Ōbayashi, sente che Hanagatami potrebbe essere il suo ultimo lavoro, ed esattamente come un ultimo lavoro lo ha impostato, come un’opera-fiume in tre atti che si estende per quasi tre ore, come un flusso di continui rimandi al capolavoro Humanity and After Balloons «ultimo film» dello sfortunato Sadao Yamanaka caduto al fronte a ventinove anni, come un ritorno alla natale Onomichi già “giapponesissima” patria dei genitori nel Viaggio a Tokyo di Ozu e ai tempi dei primissimi ricordi, quel 1941 imperiale e fascistoide nel quale il regista aveva solo 3 anni e il Giappone stava preparando l’attacco vittorioso quanto col senno di poi suicida di Pearl Harbor. Hanagatami, da perfetta opera finale, si dipana come una riflessione sulla memoria e sul rimpianto verso le tante vite spezzate dagli orrori bellici o dalle malattie, ponendosi come testamento cinematografico e spirituale in grado di ripercorrere il cinema del suo autore e più in generale tutta la storia del Cinema. Nella messa in scena del film, sotto a una patina estetica che spesso strizza l’occhio al pop richiamando i più noti capolavori del regista da Hausu a The Discarnates, si nasconde una ben precisa autorialità che sempre tende a svelare il dispositivo, a palesare l’effetto speciale low-cost, a staccare le figure dal loro sfondo irradiandole di colori primari innaturali, mentre sullo schermo l’arco prebellico si innesta in quello cinefilo, la tubercolosi di Mina rappresenta la malattia di un Giappone destinato a morire insieme ai suoi figli, e i tre protagonisti, scolari quarantenni di magnifica e surreale libertà cinematografica, si chiedono senza trovare risposte il motivo per cui dovrebbero muovere guerra contro la cultura che ha regalato loro le parole di Edgar Allan Poe e Shakespeare, le pennellate di Friedrich sul suo Viandante sul mare di nebbia, le note di Ludwig Van Beethoven, il pensiero di Marx e Lenin, oppure l’uguaglianza sociale e impermeabile alle modernità raccontata dal Paul et Virginie di Bernardin de Saint-Pierre.
Per Ōbayashi è sufficiente accostare un occidentale violoncello come accompagnamento alla rappresentazione dell’orientalissimo e tradizionalissimo Hanagatami – non certo a caso testo cardine non del popolare teatro Kabuki, ma del teatro Nō, quello “alto” – da cui il film prende il titolo per sintetizzare tutto il continuo incontro/scontro fra le due culture, quell’Oriente di flauti e di geishe per il quale ogni Giapponese deve essere disposto a morire e quell’Occidente di macchine fotografiche Kodak e di arti d’importazione nel quale Toshiko ha vissuto prima di tornare a casa, del quale Kira adora il Cristo e contro il quale Ukai indosserà quella divisa che sarà inevitabilmente il suo ultimo abito. Nel frattempo, la messa in scena di Ōbayashi torna a ragionare costantemente sulla rappresentazione e sull’elaborazione dell’immagine, sulla storia del cinema e sulle potenzialità del dispositivo. Hanagatami passa dal bianco e nero al colore con in mezzo una pioggia di petali presagio di sangue, passa dai raccordi di montaggio a finestra, a schiaffo da destra verso sinistra, alle figure vistosamente ritagliate sui trasparenti e sui green screen, passa dai ribaltamenti dell’immagine sull’asse del fotogramma come a creare uno scavalcamento di campo con la stessa inquadratura ai mascherini a iride dei cannocchiali e del cinema degli albori, passa dalle sequenze girate di giorno con il filtro di Effetto notte alle aperte citazioni di Isao Takahata e della sua Tomba per le lucciole da cui liberare gli insetti, passa dagli spaventapasseri che diventano soldati in mezzo ai bambini per poi inglobarli nel gorgo spersonalizzante del militarismo nipponico alle stranianti sfilate dei carri del Festival Karatsu che mutano in viaggio visivo nella guerra, passa dalle animazioni delle fotografie dei genitori mai dimenticati alle apparizioni con tanto di violoncello di chi era già stato spedito a cadere in Manciuria, per giungere infine all’esplosione nucleare di Hiroshima che spezzò per sempre i raggi del Sole Imperiale rappresentandola quasi come se fosse un Roy Lichtenstein, ferma, a lucidi sovrapposti, sullo sfondo di bambini che guardano innocenti e inermi l’arrivo della loro orribile morte. Nobuhiko Ōbayashi porta sullo schermo tutto il senso e tutto il cuore del suo cinema, innestando la narrazione tratta dall’omonimo Hanagatami di Kazuo Dan in soluzioni visive spesso spiazzanti, che costantemente si pongono come riflessione metacinematografica, che svelano in continuazione il ruolo fondamentale del cinema come mezzo espressivo e come macchina del tempo con la quale ritornare a uno dei periodi più bui della storia del Giappone, a un periodo la cui memoria è finita insieme alla guerra, a un periodo nel quale persino l’amore, nell’erotismo di un bacio sull’hachimachi bandana rituale samurai, è destinato a essere subito trasformato nel simbolo patriottistico, bellico e imperiale del Sol Levante, in un simbolo di guerra, in un simbolo di quello Stato fascista e militarista che stava per (continuare a) mandare a morte i suoi figli in nome di una presunta difesa delle tradizioni. E forse non è un caso che Hanagatami, con le sue riflessioni su uno Stato destrorso e assassino, arrivi proprio adesso, mentre in Giappone è al potere il destrorso Shinzō Abe, e mentre nella vicina Corea del Nord la spocchia di chi si sente potente perché maneggia tante armi rievoca gli stessi pericoli di quel tempo come fantasmi nello scacchiere internazionale. Ma non è la politica il punto del film di Ōbayashi. Nello scorrere dei suoi tre atti, Hanagatami porta sullo schermo l’innocenza, i giochi e il dolore di una gioventù travolta dal corso degli eventi storici, guarda a quegli anni e alle mentalità a confronto in un mondo inutilmente spaccato attraverso gli occhi dei suoi protagonisti e la composizione dei loro sguardi, e incastona nella tubercolosi di Mina uno specchio sia del Sol Levante malato sia di tutti gli altri protagonisti, destinati a tuffarsi dalla rupe, destinati a redimersi nella sofferenza, destinati a separare il corpo – da consegnare al Giappone e alle sue guerre, oppure alla malattia – da una mente che rimane libera, indipendente, sempre sana e sempre viva, nonostante tutto.
Toshiko, Kira e Ukai, insieme alla pletora di personaggi secondari con i quali condividono la loro (tarda) adolescenza, portano avanti le loro giovani vite fra sigarette e amori fugaci, fra bagni in mare notturni e amicizie, fra entusiasmi e presagi di morte, con il sangue che Mina prima sputa e poi vomita, con la pelle ustionata del braccio di Kira dopo la moneta ripescata nell’acqua bollente, oppure con il tuffo di Ukai, con il suo definitivo «buttarsi», nella guerra, nella morte, nel coraggio, nella redenzione. C’è il nichilista e c’è chi lo sfida, ci sono i sorrisi e le passeggiate nel bosco, ci sono le giornate sulle scogliere e le notti in cui «togliersi la paura», ci sono le medicine e le chiamate alle armi, c’è un insegnante e c’è una madre, ma soprattutto ci sono i flauti e le fotografie, le timide nudità e i vestiti da sposa, gli scatti proibiti e i picnic, le corse sulla battigia e i pupazzi del teatro tradizionale. Ci sono i baci e i morsi, ci sono i ricordi e i chiarimenti, ci sono gli addii e i tradimenti, ci sono i sentimenti e i perdoni. C’è l’insensatezza di una guerra di cultura, c’è il cinema che si disvela e sopravvive, e c’è tutto il cuore di un autore nei confronti dei suoi personaggi e delle loro passioni, destinate a essere annientate dal corso degli eventi, a trasformarsi in ricordo, in rimpianto, o in una tomba sulla quale continuare a piangere, ricevendo forse in cambio una lacrima direttamente dal marmo. Sia ben chiaro, all’interno del corpus che compone i centosessantotto minuti di Hanagatami non è difficile reperire anche momenti diseguali, soluzioni che potrebbero apparire esagerate nella loro audacia e stravaganza laddove il grottesco si sporge sul limite del kitsch, e non manca qualche momento a vuoto, specialmente in un primo atto che stenta un po’ a partire, per poi trovare nel secondo una sua collocazione di senso e lasciare esplodere nel terzo tutta la sua poetica e tutta la portata emotiva di un film che grida la sua natura di opera finale proprio mentre i suoi protagonisti, stagliati sui fondali e sui tramonti d’altri luoghi, si disperdono, soffrono, muoiono. Accanto alla poltrona da regista di Nobuhiko Ōbayashi, rimane ora solo Toshiko, ormai vecchio settantasei anni dopo la sua giovinezza, unico sopravvissuto alla guerra, unico che ancora serbi memoria di quel gruppo di amici, di quei giorni, di quell’incertezza, di quei sentimenti contrastanti pronti a deflagrare, a distruggere, ad annientare gli uomini e un Paese nel nome della boria di chi si sentiva invincibile, e che invece ha perso tutto, profondamente dilaniato nelle sconfitte e nelle esplosioni. Rimangono solo i rimpianti, rimangono solo gli istanti di settantasei anni prima, fermati nella memoria e sulla carta, nei vinili e nelle fotografie, nelle lacrime e nelle lettere, nei bastoni e sulle lapidi di chi se n’è andato per sempre nel fiore dei suoi sedici anni. O di chi ne ha ottanta, e non sapendo se arriverà agli ottantuno ha voluto regalare ancora una volta una piccola perla dalla quale lasciare grondare tutto se stesso, tutto il suo cinema, tutta la sua passione, tutta la sua umanità. La speranza è ovviamente che Nobuhiko Ōbayashi vinca la sua battaglia contro i mali di salute, che torni quel ragazzo pervaso dal demone dell’anarchia cinematografica che nel 1977 dalla casa di Hauso creava un punto di non ritorno nell’unione di immagine e narrazione, e che Hanagatami non diventi per davvero, per quanto scientemente definitivo, l’ultimo capitolo di una carriera che tutti vorremmo invece che andasse avanti, continuando a creare, continuando a sognare, continuando a riflettere. Ma una cosa è certa. Anche se questo non dovesse avvenire, Nobuhiko Ōbayashi dopo Hanagatami non avrà (più) rimpianti. E questa certezza, in quel sapore aspro come il sangue che si presenta alla bocca mentre scorrono i titoli di coda, è già di per sé l’ennesimo piccolo miracolo di un gigante.
Marco Romagna