HALLOWEEN (1978), di John Carpenter
31 Ottobre 2017, prima proiezione del Trieste Science + Fiction nella nuova – magnifica – cornice del Teatro Rossetti. E non poteva esistere miglior modo per inaugurare un Festival: Halloween (1978) di John Carpenter, uscito al tempo in Italia con il pleonastico sottotitolo ormai dimenticato La notte delle streghe, è un capolavoro senza tempo, intramontabile, sempre rivoluzionario, presentato proprio nel giorno di Halloween nel nuovo e ottimo restauro digitale anticipato da una piccolo documentario di presentazione, che racconta, anche con le parole del regista, la genesi e l’impatto del film.
Carpenter aveva alle spalle solamente Dark Star (1974) e Distretto 13 – Le brigate della morte (1976), quando il produttore Mosutapha Akkad gli offrì la possibilità di girare un horror. Nonostante un modesto budget di circa trecentomila dollari nell’era della nascita del blockbuster come Star Wars (1977) e Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), Halloween raggiunse incassi clamorosi, grazie più che altro a un passaparola generale, diventando uno dei film indipendenti con più successo della storia del cinema.
Né il regista né i produttori avevano alcuna idea di cosa stavano per far nascere. John Carpenter, come più volte dichiarato, stava solo cercando di fare un film senza particolari pretese, avendo a disposizione un budget irrisorio rispetto ad altre produzioni contemporanee e la miseria di venti giorni per le riprese. Ma aveva evidentemente anche qualcos’altro, di cui nessuno aveva saputo prevedere la potenza: tanto, tantissimo amore per il cinema, per lo spettacolo, ed è stato questo a “fare il film”. Girato in un impressionante Panavision, è chiaro come sia stato concepito unicamente per la sala cinematografica, nel rituale collettivo della proiezione. Serve il grande schermo, serve l’audio ad alto volume, serve sedere nelle prime file, per vedere “davvero” Halloween. Ed è sempre una prima volta, un’epifania.
Halloween viene riconosciuto soprattutto come uno dei capostipiti del film slasher, e senza dubbio è quello che più l’ha portato alla strabiliante popolarità che ebbe negli anni Ottanta, tanto che da esso sono nati ben sette sequel (di cui solo il primo scritto da Carpenter) e, a seguito di un reboot sella serie, altri due film diretti da Rob Zombie.
Il film si regge su una trama semplicissima, e in particolare sul suo “mostro”: Michael Myers all’età di sei anni ha accoltellato a morte sua sorella maggiore la notte di Halloween, e da allora è rimasto in un istituto psichiatrico per quindici anni, fin quando il 30 ottobre del 1978 riesce a scapparne dirigendosi verso la propria vecchia casa a Haddonfield, Illinois. A mettersi sulle sue tracce è il suo psichiatra che l’ha seguito da sempre, il dottor Loomis, interpretato da Donald Pleasence, molto famoso come caratterista all’epoca. Nella perfieria di Haddonfield, la protagonista Laurie e le sue amiche Nancy e Lynda che si trovano a fare da babysitter durante la notte di Halloween diventeranno i bersagli di Michael.
Se lo spunto narrativo è così essenziale, ciò che rende unico Halloween è l’iconicità dei suoi personaggi, in particolare proprio del killer, che diventerà poi un archetipo del cattivo dei film slasher. Micheal Myers è a metà tra l’umano e il non-umano, un’incarnazione del male stesso: i bambini lo identificano con “l’uomo nero”, il suo volto è coperto da una maschera umana ma tinta di bianco e priva di qualsiasi espressività, non pronuncia una parola per tutto il film, e nei titoli di coda è addirittura chiamato “the Shape” (“la forma”). Straordinaria è anche la scelta di Carpenter di far esperire buona parte del film proprio dal punto di vista di Michael Myers, come nel flashback iniziale in cui vediamo l’omicidio di sua sorella tramite un lungo piano sequenza realizzato con steadycam, peraltro filtrato da una maschera da clown, quindi con una visione distorta. Il suo sguardo è freddo, innaturale, totalmente privo di empatia, e anche molte sue soggettive (indirette o meno) sembrano inquadrature oggettive, si confondono le une con le altre. Quando invece è lui ad apparire sullo schermo, scompare e riappare in maniera innaturale, si muove sullo sfondo, avvicinandosi sempre di più alle sue vittime. In un’inquadratura lo si vede osservare una di queste quasi come un bambino guarda un insetto a cui ha staccato le zampe.
Per quanto riguarda invece le ragazze, Lynda e Nancy sono estremamente stilizzate, una rappresentazione delle tipiche adolescenti americane degli anni Settanta, talmente distratte dal sesso che non riescono ad accorgersi della minaccia del killer. Laurie, dal lato totalmente opposto, non ha mai avuto un ragazzo, forse perché la sua intelligenza li spaventa: è scaltra, tutt’altro che indifesa, e infatti sarà l’unica che riesce a sfuggire al coltello di Michael e che addirittura lo rivolta contro di lui. È da ricordare poi che Jamie Lee Curtis, lanciata allora sconosciuta da Halloween e ben presto diventata la “scream queen”, ovvero la star femminile di horror per eccellenza, è figlia di Janet Leigh, la grande diva che viene uccisa in Psycho, dal quale Halloween riprende ed espande molti elementi, come l’uso del punto di vista del killer, la rappresentazione degli omicidi incentrata sul non-visto e la sessualità che funge da innesco per questi ultimi (anche se, a differenza del capolavoro di Hitchcock, quest’aspetto viene solo lasciato intuire invece che essere spiegato in chiave psicanalitica).
Le motivazioni di Michael, invece, restano imperscrutabili: il dottor Loomis (il cui nome peraltro deriva proprio dal Sam Loomis di Psycho) non lo descrive come un essere umano, bensì come il male assoluto. Michael non sta perpetrando una punizione nei confronti dei costumi disinibiti di questi adolescenti e, di conseguenza, come ha ribadito più volte Carpenter respingendo qualsiasi sovrainterpretazione, è impossibile associare il film a una parabola morale. E non è nemmeno un diretto attacco alla società americana costituita da piccole comunità chiuse ed apparentemente idilliache: se in altre opere di Carpenter la satira e la critica sociale sono fondamentali, qui il male non è nel potere o nei rapporti fra umani, ma è quasi una forza della natura “incarnata” in Michael Myers. È un male eterno che torna ciclicamente, impossibile da sconfiggere e sempre a piede libero, pronto a sconvolgere anche la più piccola periferia d’America.
Carpenter non si affida al sangue o alla diretta rappresentazione della violenza per evocare l’orrore: il motore di Halloween è una tensione perenne e indescrivibile, ottenuta grazie a una regia magistrale, fatta di illuminazioni e contrasti chiaroscurali stridenti come le note della meravigliosa colonna sonora di sintetizzatori da lui stesso composta. Sia questa atmosfera unica sia i volti (e non-volti) indimenticabili dei suoi personaggi hanno reso questo film non solo uno dei più iconici della storia dell’horror, la cui formula verrà imitata con più o meno successo per i decenni a venire, ma anche e soprattutto una sconvolgente esperienza cinematografica, rievocabile solo ed esclusivamente grazie a una proiezione pubblica, su grande schermo, in cui perdersi nelle immagini. Saltando sulla poltrona, e non opponendosi ai brividi lungo la schiena.
Tommaso Martelli