Hair nasce come un prodotto atemporale, come un musical hippie post-epoca d’oro degli hippie, con uno sguardo critico e tragicomico verso un evento già conclusosi da 4 anni, la guerra in Vietnam, con attacchi diretti alla figura di Richard “Tricky Dicky” Nixon, non più presidente statunitense da 5. Questo perché Hair, nonostante le apparenze formali da film di protesta da fine anni ‘60/inizio anni ’70, ha come principio visivo e contenutistico un profondo senso di nostalgia perfettamente integrato dalla forma stessa del film: il musical di Broadway. Il film di Forman infatti è tratto da Hair: The Tribal Love-Rock Musical, un’opera musicale appartenente ad una serie di prodotti di controcultura hippie durante la rivoluzione sessuale sessantottina, scritta da James Rado e Gerome Ragni con musiche composte da Galt MacDermot, ovvero, insomma, un musical perfettamente in linea con i tempi e con il suo periodo d’uscita. L’adattamento cinematografico era inevitabile dato il successo in teatro, ma è giunto 11 anni dopo, in un pieno anacronismo, con Forman forte del successo di Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975). Il film, tutt’ora disponibile solo in una versione tagliatissima dalla produzione e ben più corta dalla versione del regista, è lontana per narrazione dalla trama originale del musical: il protagonista Claude, ad esempio, invece che essere membro integrante del gruppo della “tribe” hippie, nel film è un cowboy dell’Oklahoma venuto a New York per pochi giorni prima di dover iscriversi nell’esercito; Sheila pure non è un semplice membro della “tribe”, bensì è una giovane borghesotta un po’ trasgressiva, che fuma marijuana nascosta dai genitori e che diventa oggetto di desideri di Claude (mentre nel musical originale è lei ad essere cotta sia di Claude sia di Berger); pure il finale è drammaticamente diverso e complesso. La sceneggiatura di Michael Weller si è presa dunque svariate libertà rispetto al materiale originale, rendendolo un discorso più incentrato sulla quotidianità hippie e meno sulla complessità dei movimenti pacifisti, più sulla resa drammatica della storia di Claude e Berger e meno sulle derive psichedeliche delle loro avventure, più sulla definizione di libertà che sulla definizione di pace.
E infatti, come può non interessare la libertà a Forman? Del resto è tra i principali autori della Nová vlna (la Nouvelle vague cecoslovacca), uno dei movimenti più folli, aperti e liberi del cinema tutto, una corrente che ha portato il cinema europeo sia alla ‘joie de vivre’ apocalittica dell’anarco-femminismo di Le margheritine (1966) di Věra Chytilová sia ai demoni lesbo-vampireschi della formazione di Valerie in Fantasie di una tredicenne (1970) di Jaromil Jireš. Il cinema di Forman è nato così, con la rivoluzione sperimentale e umanista di uno dei filoni più importanti e necessari dell’arte cinematografica del nostro continente, con lo studio del linguaggio attraverso gli attori non protagonisti in Audition (1964), con l’umanità socio-politica di Gli amori di una bionda (1965) e la precisione radicalmente delirante degli amari disastri di Al fuoco, pompieri (1967). Nonostante un distacco stilistico necessario rispetto al suo passato di rivoluzionario, Forman, abbandonando la Repubblica Ceca, è passato al cinema statunitense con una coerenza incredibile, mantenendo in ogni proprio film la musicale necessità di un’espressione di questa meravigliosa libertà artistica e vitale. Dallo strip poker di Taking Off (1971) alla fuga conclusiva di Qualcuno volò sul nido del cuculo, rimane una necessità di uscire da uno schema e da uno schermo, rimane la necessità di narrare un mondo magari che neanche esiste per il semplice e necessario scopo di esprimere una libertà che vive in quello schermo, in quelle ore di fissità e movimento, in quell’emotività esplosiva. E quindi, nel ricollegare il suo passato ceco con la sua formazione americana dura e pura, non possiamo che essere felici dell’occasione offerta dal 35esimo Bergamo Film Meeting di poter ripassare la filmografia di un regista che, pur avendo raccolto nella sua filmografia ben due Oscar alla regia, è ancora oggi sottovalutatissimo. È in questo collegamento che l’anacronismo di Hair trova la propria raison d’être in una tragica nostalgia di una scenografia passata, di una coreografia ballata – magari su un tavolo, provocando apertamente il perbenismo borghese a costo di essere arrestati – in uno spettacolo cinematografico irrealistico che coniuga un cinema che stava già scomparendo (il musical classico) con un’estetica che era appena diventata datata (quella hippie). Relazioni poliamorose, droghe di ogni tipo, una libertà sessuale pienissima e canzoni piene di vita circondano Claude fino a ingabbiarlo in un senso effimero di autonomia ed emancipazione da una società che lo costringe al combattimento per il bene di un mondo che vive ugualmente e per il male di un mondo che lui non vorrebbe far soffrire.
Più che un film in difesa della cultura hippie e dell’enorme generosità e senso di sacrificio dell’estetica anni ’60, Hair verso la fine si manifesta in maniera definitiva e irrevocabile come un esempio emotivamente sconquassante di antimilitarismo iconoclasta, in cui scompaiono di fronte alla necessità di una lotta anche gli aspetti più burleschi e surreali (il cui apice si raggiunge nelle canzoni “Black Boys” e “White Boys”, in cui vengono alternati i canti di tre donne bianche che elogiano gli uomini neri e di tre donne nere che elogiano gli uomini bianchi, con i canti dei militari al posto di arruolamento che commentano i soldati con le stesse parole dal retrogusto erotico usate dalle donne). Questa speranza che sembra essere posta nella rivolta è mostrata in maniera dissacrante e fredda attraverso un finale che prende l’estetica magari invecchiata male del film e la destruttura, riportando la tragedia su di un piano di realtà surreale in cui comunque lo spettacolo musical/cinema sussiste; come una specie di fuga irreale per comprendere il reale, come una specie di fuga nel cinema per comprendere meglio la Storia, con fermi immagine di enormi manifestazioni di fronte alla Casa Bianca. La lotta continua, forse, non finirà mai, sicuramente. Sotto il Sole, in un cimitero, per strada, in macchina, in piazza, nel volto del bellissimo Berger, contro tutti per il bene di tutti.
Nicola Settis