HABITAT – NOTE PERSONALI (2014), di Emiliano Dante
L’Aquila, cuore degli Abruzzi. Arroccata sui declivi dei monti, medievale per struttura ed orgoglio, un gonfalone storico che garrisce verso la gelida tramontana. Fra il Gran Sasso e l’Aterno, una colonia sull’altopiano dal sapore antico, dove il sole si alterna alla neve e gli uomini crescono bene e in fretta bagnando di Montepulciano le ugole arse di zafferano, arrosticini e ferratelle. Una terra di legami forti, una terra difficile, dura, ferita, una terra distrutta dai sismi. Già nel 1315, poi nel 1703. Poi, quella notte del 6 aprile 2009. Ora, L’Aquila è un non-luogo.
Emiliano Dante è un regista aquilano classe ’74. Nel 2009, come tanti altri, ha perso in un rombo assordante la sua casa e la sua vita. Armato di tanta fame di lotta ed una videocamera, nel 2009 firma Into the Blue, presentato a Torino nella sezione TFFdoc. Il blu della tendopoli e i rapporti umani si fondono in un crescente spirito di gruppo, dove la necessità crea partecipazione ed il dolore rimene immutato nel silenzio dei media, impegnati piuttosto a canonizzare ipotetici salvatori della patria sermoneggianti in diretta nazionale sotto il loro inutile caschetto giallo. Into the blue parla dell’azione salvifica delle arti: nella convivenza forzata, l’evasione dal dramma si staglia come l’eterno fondersi di musica, teatro, figura. Cinema.
Cinema come necessità, perchè il linguaggio cinematografico possa reinventarsi sotto la spinta dell’urgenza. Cinema sincero, onesto, personale. Cinema sociale e politico, figlio di un forzato disagio. Cinema di sentimenti e montaggio, dove le schermate di Première sono atto creativo fondamentale quanto un giro fra le macerie.
L’Aquila, adesso, è una terra ancora sanguinante. La famosa ‘ricostruzione’ è sfociata, sotto l’egida del governo Berlusconi, nel pressapochistico e dilettantesco progetto C.A.S.E.: il centro storico è ancora distrutto, e sono nati tanti piccoli -orrendi- agglomerati a 14km dal centro. Le C.A.S.E. sono scenografie, talmente fragili da sgretolarsi nel giro di tre anni, con gli abitanti costretti ad un nuovo trasloco in un prefabbricato gemello, in un’altra zona ugualmente isolata. Oggi un aquilano deve essere automunito, e la vita a piedi del borghetto è diventata guidare per ore in una terra di nessuno, anonima, senza colore, minacciosa. Guidare, anche solo per giungere alla città che non esiste più. Guidare verso il centro commerciale, non-luogo per eccellenza che paradossalmente si staglia ad unico residuo e possibile agglomerato sociale. Guidare per non essere soli, in una minuscola ed alienante new town semidisabitata che nulla ha a che fare con L’Aquila. Ma questo, i telegiornali, non lo hanno mai detto.
Emiliano Dante, a cinque anni di distanza dagli eventi tellurici, presenta -nuovamente a TFFdoc- Habitat – note personali, sentita e personalissima opera sul tempo che passa, sulle radici, su una terra snaturata, sull’obbligo di guardare avanti, e ancora sul linguaggio cinematografico come necessità e catarsi, sull’autorappresentazione come umana lotta e rifugio. Non c’è, però, la certezza dello spiraglio di luce in fondo al tunnel che animava Into the Blue, offuscata dalla pressante percezione di un forse irreversibile regresso culturale, dimenticati da istituzioni e progresso: L’Aquila, cinque anni dopo, non interessa più, non fa più notizia.
La scelta del bianco e nero, perchè quella notte si è portata via anche il colore, viene resa ancora più efficace dalle pochissime sequenze policrome: il bianco e nero è schietto, evocativo, efferato nei chiaroscuri e capace di delineare la mancanza di prospettive di fuga all’orizzonte. C’è spazio per lo smarrimento, per la frustrazione, per la fatale depressione, per meditare il suicidio, per interrompere le riprese per oltre due anni. C’è spazio per famiglie che nascono e si sfaldano, c’è spazio per le vite che nonostante tutto proseguono, c’è spazio per fuggire due volte. Però poi, come in preda ad un richiamo del sangue, si sente la necessità di fare ritorno nella terra natìa, con la rinnovata necessità di lottare per rialzarsi.
Il regista si rimette in scena insieme ai protagonisti di Into the Blue rimasti a L’Aquila, ex compagni di tenda indissolubilmente legati dalla tragedia affrontata insieme, in questo ideale -e forse superiore, sicuramente più maturo- seguito. Alessio è divenuto agente immobiliare, Paolo sta per diventare padre e si dà alla pittura. Le loro vite, nuove e spaesate, sono metafore forse inconsapevoli di un’intera città. Dante utilizza uno stile personale, voce narrante da un presente che è passato, protagonista proteso verso un futuro incerto, con animazioni e sperimentazioni visive a corollario lirico della geografia negata e dei sentimenti catturati e messi in scena. Le crepe sui muri sono le stesse che si fanno strada nelle vite dei protagonisti, crepe abissali, percorsi di vita. Quello di Emiliano Dante è un Cinema profondamente autentico e partecipativo, per il quale l’autore non ha paura di confessare pubblicamente i propri drammi esistenziali. E poco importa se, nella ricerca linguistica, ogni tanto esagera con animazioni e scritte che a tratti sembrano prendere il sopravvento, causando le uniche, veniali, zoppie del film: Habitat – note personali è cinema che riluce di umanità, abile nello sfuggire a qualsiasi forma di facile retorica, sincero ma mai patetico. Profondamente politico nella scelta di non parlare apertamente di politica, rendendosi inattaccabile dalla malafede di eventuali letture faziose.
Le passeggiate con il cane, vecchio e malandato, sono un vagare di fantasmi nel candido nulla imbiancato, dove ogni tanto si intravvede qualche bulldozer che rimuove come un mostro parti pericolanti dagli edifici, mentre i panni stesi sono ancora lì, dal 2009, a guardia delle macerie. Il tempo si è fermato, quella notte, gli spazi sono cambiati, troppi e spersonalizzati. La fiaccolata annuale in centro, e poi ognuno in auto fino al suo non-quartiere, agghiacciante rilettura moderna del dividi et impera. Il terremoto è ancora nelle teste e nei discorsi di tutti i superstiti, come un’atavica presenza maligna con la quale la convivenza assume a tratti le forme amare della rassegnazione. Ma la vita procede, ci sono nuove conoscenze, nuove amicizie, nuovi amori: Habitat – note personali è lo spaesante e spaesato resoconto di chi non si sottomette, dell’aquilano che si sente, oltre la spettralità dei luoghi e del suo vagare, ancora vivo.
Il futuro è nel parco dove corrono felici i bambini, incolpevoli abitanti di un teatro di posa. Nei loro giochi, la chiesa sulla cui facciata tirano impunemente pallonate ha ancora il tetto, o forse non lo ha mai avuto.
Marco Romagna