GUNDA (2020), di Victor Kossakovsky

Presentato nella nuova sezione Encounters, il ‘vegano’ Gunda è probabilmente uno dei film più smaccatamente politici di questa 70ma Berlinale. Nel corso di 90 minuti ipnotici e abbacinanti, Victor Kossakovsky con la sua macchina da presa osserva Gunda, la scrofa protagonista del film, e i suoi maialini alle prese con la loro quotidianità. Insieme a loro ci sono anche una manciata di polli e qualche mucca, animali che semplicemente trascorrono le loro vite in un terreno agricolo non specificato, ma che capiremo ben presto non essere un territorio libero.
Sono molti i film in questa Berlinale che ragionano di ambientalismo e su quello che potremmo fare per cambiare il nostro presente. Quello di Kossakovsky è sicuramente il più radicale, un film potenzialmente universale, senza commento né dialogo alcuno e privo persino di musica, che non mira a documentare la coscienza animale e nemmeno a cercare affinità legate agli esseri umani o alla sfera dei sentimenti, ma semplicemente osserva. Kossakovsky prosegue il lavoro iniziato con Aquarela, film che era un omaggio all’acqua di tutto il mondo, e allo stesso tempo con Gunda va ancora più a fondo nel suo approccio, concentrandosi su un ritmo della vita estraneo a noi esseri umani.
Il regista russo filma da vicinissimo gli animali, in bianco e nero, sembra essere lì insieme a loro. La protagonista del film è una gigantesca scrofa, e la vediamo che si prende cura dei suoi piccoli, li allatta, li accompagna verso l’inizio della vita. Sporge la testa dal porcile che definisce il suo mondo, mentre i maialini le vorticano attorno e fanno a gara per farsi allattare. Kossakovsky si avvicina, con un obiettivo lunghissimo che ci permette di apprezzare i dettagli, e ci mostra tutta la tenerezza di un allattamento così selvaggio. La luce che entra soffusa illumina i peli sulla schiena dei maialini, evidenzia tutte le loro fragilità mentre annusano e si divertono, o mentre la loro madre li sposta in modo rozzo e ovviamente animalesco. Gunda poi si libera dei suoi piccoli, si riposa al sole, si avvicina alla macchina da presa e sembra guardarla. Cosa pensa? Sa quale sarà il suo destino? Cosa pensa di noi? Vedendola così da vicino non possiamo che porci simili domande.

Kossakovsky osserva questo mondo con minimalismo, sta attaccato agli animali, ce li mostra mentre si gettano nel fango, mentre scacciano le mosche o mentre cercano i vermi. Sono loro gli eroi indiscussi del film. A tratti però ci accorgiamo che hanno dei marchi, che hanno oggetti che sporgono dalle orecchie, che ci sono steccati invalicabili attorno a loro piccolo mondo, e che ci sono delle gabbie che prima non vedevamo. Sono ovviamente nostri prigionieri, e la fine che li aspetta è a noi evidente.
Senza entrare nel dibattito sullo specismo e sull’antispecismo è indubbio che nel mondo attuale esistono molte discriminazioni, di diverso tipo, e queste si presentano quando a qualcuno viene data meno considerazione morale rispetto ad altri, oppure quando qualcuno viene trattato male rispetto ad altri senza un giustificato motivo. È evidente che gli animali nel nostro ciclo produttivo sono quello che mangiamo, ed è altrettanto evidente che i numeri degli animali nel mondo sono enormemente superiori a quelli degli esseri umani proprio per soddisfare il nostro piacere alimentare. Gunda è infatti una delle diverse centinaia di milioni di maiali che abitano il pianeta; come si diceva all’inizio nel film vediamo anche qualche mucca che rappresenta circa il miliardo di bovini che ci sono sulla terra; e ci sono pure 20 miliardi di polli, che Kossakovsky rappresenta attraverso un pollo con una zampa sola, meraviglioso nel suo incerto inciampare nel mondo.
Gunda è prodotto, tra gli altri, anche dall’attore Joaquin Phoenix, noto attivista vegano e sempre attento agli animali e all’impronta degli esseri umani nel mondo. Kossakovsky non fa proclami ma ci mostra questo mondo nella sua semplicità, lasciando che la tenerezza del materiale parli da sola. L’affascinante esperimento non narrativo del regista russo va diretto verso il soggetto e cerca un contatto con questi animali, fino ad attribuire grandiosità ai perdenti, e diventare un appello notevole rivolto a noi tutti. Ci deve far comprendere, ci deve far interessare allo stato in cui vivono gli animali che ci circondano. L’unica risposta possibile per noi spettatori è interrogarci sul consumo di carne. Dovremmo cambiare qualcosa delle nostri abitudini? Forse no, probabilmente no. Ma non si riesce a non pensare a ancora a Gunda, quando appena usciti dal cinema ci si imbatte negli odori di bratwurst e salsicce che indefessi invadono la zona del Festival.

Claudio Casazza