GULYABANI (2018), di Gürcan Keltek

Già nell’affascinante Meteorlar, presentato a Locarno lo scorso anno, Gürcan Keltek si interrogava con radicalità sullo spazio, sui piani di realtà declinati attraverso i simboli, sull’approccio astratto nei confronti della Storia del proprio Paese, una Turchia da sempre frammentata e inquieta nelle sue zone ribollenti e represse, nelle sue etnie e nelle sue derive. In questo Gulyabani, ancora a Locarno nella sezione Signs of Life, il contesto si fa se possibile ancor più rarefatto e nascosto, alterato e distorto, dalla quiete alla tempesta e ritorno passando per la polvere mesmerica dell’immateriale e dell’inafferrabile, partendo magari già da un titolo che incarna una parola senza traduzione, nuova, costruita per descrivere una specie di fantasma, un’entità, un demone. Un jinn, immancabile figlio della tradizione più antica, che giunge a declinare la sua leggendaria velocità nella progressiva e ineluttabile rarefazione dell’immagine, nella sua scomposizione, nella rapidità ipnotica e quasi subliminale, profondamente mesmerica per non dire psicotropa, dell’alternarsi delle sue parti e delle sue forme. E probabilmente, nel tentare di allungarsi verso l’imprendibile, non basteranno mai gli aggettivi per descrivere quello a cui ci si trova davanti, mentre una voce distante ci porta all’interno della Storia e delle storie.

Tratta della storia accennata di un’emarginata Gulyabani, quella di uno spirito inquieto e senza pace che abita un luogo mistico, desolato e solitario. È la storia, vera, di Fethiye Sessiz, veggente di Izmir famosa negli anni Settanta e Ottanta, rappresentata da Keltek fra la natura e la stregoneria. La sua è una presenza vorticosa e instabile, quella di un’entità plasmatica che segna lo spazio e lo descrive, scandendo il tempo della visione. Le sue parole sono contorte, fatte di accenni e di sguardi, segni e metafore, e parlano di abusi e violenze, di tutto ciò che ha dovuto subire per possedere una dote, del peso nell’esercitare un dono ricevuto. Le sue lettere al figlio distante, oltre ad amplificare questa distanza, mostrano uno spaccato drammatico e percettivo della Turchia post-repubblicana, riscrivendo la memoria possibile di un futuro con il passato a brandelli. E quando i frammenti della giovinezza di Fethiye abbandoneranno l’immagine, il film si slabbrerà verso una composizione visiva più che mai materica e fascinosa, in cui il fotogramma in 16mm perde progressivamente il colore per diventare spazio riservato a luce e contrasti, quello che ci riporta essenzialmente alla meteora. È ancora la civiltà ad essere in pericolo, e questo paesaggio emotivo, nei suoi splendidamente asfissianti 35 minuti, mostra sensibilmente la sua violenza urticante.

Il dispositivo elaborato da Keltek si fa ancora più estremo e radicale nel modulare le immagini rendendoci partecipi dell’inafferrabile. Prima danza attraverso esposizioni di diversi paesaggi colti nel loro misticismo caldo e impressionista, spesso in contrasto netto con la durezza della voce narrante, e poi astrae, frammentando l’immagine per penetrare con il suo misticismo i misteri e le storture storiche e culturali di un Paese. La parte conclusiva del mediometraggio pare condensare vorticosamente la ricerca estetica di Meteorlar (allora di pura non-saturazione monocromatica) alla ricerca di qualcosa di non più percettibile, apparentemente non visibile e forse non percepibile. Come in un tentativo di automatismo dell’occhio cinema di andare oltre lo sguardo, cercando lo spettro di identità sconosciute dall’essere pura presenza. Ciò che vediamo appare alla fine come una specie di flicker smembrato e geometrico, un qualcosa che pare riflettere le forme del paesaggio circostante ma che non ne condivide limpidezza e luminosità. Pur con modalità (e tempi) differenti rispetto all’esordio, la ricerca linguistica – e in un certo senso politica, se si pensa al Kurdistan e al suo popolo – di Keltek continua nel suo rigore, forse non di grande originalità, ma di puro impatto materico e fisico. Facendoci ancora una volta pensare, per astratto, che spesso la vera immagine è quella che non si vede.

Erik Negro