GUERRA E PACE (2020), di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi
«Togli il sangue dalle vene e versaci dell’acqua al suo posto: allora sì che non ci saranno più guerre»
Lev Tolstoj
C’è una scena, intorno alla metà di Guerra e pace, in cui uno studente deve descrivere un’immagine di guerra al suo insegnante: si tratta di una fotografia più lunga per il lato verticale, in cui tre cadaveri di soldati sono a terra, distanziati, e riempiono l’immagine sia in primo piano che al centro, sullo sfondo un carro armato. Lo studente, militare anch’egli, descrive i cadaveri come i “personaggi” della foto. Siamo all’interno di una Scuola dedicata all’immagine del Ministero della Difesa francese, una scuola dove si addestrano soldati-fotografi. È la terza parte del film, costituita da straordinarie riprese all’interno dell’istituto, atto ad addestrare soldati della Legione Francese che si interrogano su cosa fotografare, come farlo, capire se sono fotografie da mostrare o da archiviare. È un po’ il nucleo di Guerra e pace, il ritorno al lungometraggio e alla Mostra di Venezia di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti dopo Spira Mirabilis di tre anni fa, con in mezzo la breve distanza (letteralmente) “metropolitana” di Blu. Il loro nuovo film, in concorso nella sezione Orizzonti, mostra e analizza l’ultracentenaria relazione tra cinema e guerra, per ragionare sulla violenza che imperversa nel mondo e su come l’immagine ce la restituisce. Il film è scandito in quattro capitoli (passato remoto, passato prossimo, presente e futuro) e prova a ricomporre i frammenti della memoria visiva dai primi del Novecento a oggi. I due registi milanesi partono dagli albori del cinema di guerra, nel lontano 1911, in occasione dell’invasione italiana in Libia, e arrivano fino ai giorni nostri, passando dalle sequenze filmate dai pionieri del cinema come Comerio alle odierne riprese girate con gli smartphone nei mille conflitti che vediamo tutti giorni sul web o alla televisione. È un film che ragiona in modo analitico sulla realizzazione e conservazione delle immagini, sul motivo per cui vengono realizzate e sull’uso che se ne può fare dopo la loro produzione.
Il cinema fin dalle sue origini ci mostra un legame fortissimo con la guerra più che con la pace, sia per lo spirito che ha attraversato la prima metà del secolo scorso, sia per l’intrinseca necessità di documentare gli eventi storici. Guerra e pace parte perciò con le immagini dell’invasione italiana della Libia, con la finzione delle stesse immagini che vengono filmate e analizzate: si vede chiaramente una tensione che non è quella della guerra, ma che sono immagini girate ad uso e consumo della propaganda, per essere viste dal pubblico in Italia e far arrivare il messaggio chiaro e forte della potenza bellica dell’esercito italiano durante la colonizzazione di inizio secolo scorso. Martina Parenti e Massimo D’Anolfi ce le mostrano prelevandole dall’archivio al momento del restauro e così hanno uno spazio privilegiato per ri-trovarne il senso, scomporle e analizzarle provando a capirne il contesto storico e l’uso memoriale attuale. Nella seconda parte ci gettiamo invece nel contemporaneo e nella “gestione della guerra” tra passato e presente: le immagini ci portano sempre in Libia ma le vediamo dalle sale della Farnesina, l’unità di crisi del Ministero degli interni che lavora per capire dove sono gli italiani in guerra e capire come e se intervenire. Mappe, immagini che provengono dai cellulari, telegiornali. Così i nostri diplomatici capiscono cosa succede nel mondo. Parenti e D’Anolfi stanno in osservazione, alla maniera di Wiseman, dentro il palazzo del potere che prova a capire qualcosa di quel che succede prima a Mogadiscio e poi in Siria. Telefonate a italiani in zona di guerra, incomprensioni, contatti che vanno e che vengono. La normalità e l’assurdità della guerra vista nelle stanze che dovrebbero controllarla, con l’empatia di chi tiene alla propria nazione.
La terza parte è quella della scuola dell’esercito succitata; i due registi milanesi l’hanno scoperta perché il primo archivio storico di immagini di guerra è proprio quello del Ministero della difesa francese: immagini dall’Africa all’Indocina che mostrano la potenza militare della Francia e gli orrori commessi in territori più o meno lontani. Entrare in questo archivio è un privilegio di pochi, infatti molte immagini non possono essere mostrate neanche ai soldati stessi. Parenti e D’Anolfi sfruttano la rara possibilità, e ci mostrano proprio i soldati che si interrogano esaminando le immagini dell’archivio, imparano a fotografare e comprendono l’ideologia della rappresentazione. Studiano per manipolare, per costruire immagini o filmati atti a mostrare la potenza dell’esercito, ma si interrogano anche se sia giusto o non giusto continuare a fotografare in un mondo che è un bombardamento continuo di immagini. Lo sguardo dei due registi è evidentemente critico, e Guerra e pace è chiaramente in qualche modo un trattato, al contempo etico e teorico, su quanto siano pericolose le immagini, sulla crudeltà del cinema, che è stato feroce nel passato come lo è nel presente. L’immagine-arma, come è chiaro nel recente Still Recording, è dietro l’angolo in ogni conflitto e anche nelle sue conseguenze. Guerra e pace si interroga pertanto, nel capitolo finale, sulle conseguenze ultime della guerra, sul senso della Storia e della conservazione della memoria a beneficio delle future generazioni. In quest’ultima parte, sicuramente doverosa, si vedono i magazzini dove vengono con cura conservate/congelate le pellicole. I due registi rivolgono il proprio sguardo alla conservazione e al passato della materia pesante, analogica, quella della pellicola, e si interrogano sulla memoria senza più testimoni diretti, – l’Olocausto è l’esempio lampante. In questo modo non possiamo che pensare alla fallibilità dell’archivio del digitale, il non-archivio della miriade di immagini che vengono prodotte di questi tempi. Una memoria che viene costantemente condivisa nell’immediato, come vediamo tutti i giorni sui social media, ma che non sarà archiviabile. Rimarrà intangibile, impossibile da fermare, fino all’oblio. Salvo poi ricominciare a chiederci come e perché ciclicamente si ripresentino i momenti più bui già vissuti.
Claudio Casazza