GUARDIANI DELLA GALASSIA VOL. 2 (2017), di James Gunn
Voglio partire da un presupposto personale. Il cinema supereroistico è un cinema nato relativamente presto e sviluppatosi a livello commerciale tardi, ma il suo successo inevitabile ha innescato nel pubblico cinefilo inevitabili e non completamente irrazionali lamentele: «ormai a Hollywood si fanno solo remake, reboot e sequel», «il cinema non è più una fabbrica di sogni, è solo una fabbrica di operazioni spilla-soldi», «non abbiamo bisogno dei supereroi», e così via. Nel bene e nel male, questa è la nuova epica del cinema commerciale americano, basato sulla distribuzione ostentata di prodotti che figliano gli stessi personaggi, in un circolo vizioso colmo di problemi — questo anche a causa dell’influenza della Disney che, avendo acquistato sia la Marvel sia la Lucasfilms, è ormai vera e propria industria-manifesto esattamente di quel cinema verso cui gli appassionati radicali del cinema d’autore si accaniscono così enfaticamente (v. Cut di Amir Naderi). Quindi, nel dire che ho apprezzato Guardiani della Galassia e il suo seguito appena uscito in sala, non riesco a non trovarmi di fronte a un bivio emotivo: il disprezzo verso la commercialità ammiccante della Disney da una parte (che si nota ad esempio dal cameo di Jeff Goldblum nei titoli di coda, truccato e vestito come il personaggio che interpreterà in Thor: Ragnarok che uscirà più tardi quest’anno, o dalla presenza di ben 5 scene in mezzo e dopo ai titoli di coda); e dall’altra un forte apprezzamento, all’interno del genere, di questi due film. Cercherò di concentrarmi unicamente sulla seconda di queste sensazioni, dimenticando queste riflessioni che sono in realtà sin troppo esterne dalla visione, per un semplice motivo: durante il film non mi sono annoiato un attimo, e ho avuto vari spunti di riflessione. Non importa se la Disney ha speso troppi soldi o ha limitato troppo la creatività del regista per motivi legali, o meglio importa ma finisce in secondo piano, perché Guardiani della Galassia, Vol. 2, ancora più del suo film predecessore del 2014, è davvero il cugino bastardo del genere supereroistico e, sotto certi punti di vista, a parte forse i primi due Spider-Man di Raimi, il più bel film della Marvel. Superata questa barriera dello sfogo personale, cerco di spiegarmi.
Una cosa che è sempre stata programmaticamente problematica all’interno del MCU (Marvel Cinematic Universe: l’universo condiviso dei film Marvel, in cui, in grande o in piccolo, gli stessi personaggi ritornano, si confrontano, combattono insieme o l’uno contro l’altro) è l’apparato visuale. Oltre agli effetti visivi, necessariamente ottimi la maggior parte delle volte per motivi semplicemente economici, i film Marvel hanno tutti una simile apparenza, grigia, piatta, che fa somigliare molto queste atmosfere enfatiche ed eroiche, che si rifanno (o si dovrebbero rifare) a dei fumetti più o meno psichedelici degli anni ’60, a dei più semplici film d’azione. Il primo Thor (2011) di Kenneth Branagh sicuramente mostra in maniera quasi assurda il paradosso patetico di questo scontro visivo: da una parte abbiamo le avventure di Thor sulla terra, le sue interazioni con Natalie Portman e compagnia bella, e l’impressione generale è quella di un western d’azione peraltro non fatto particolarmente bene; dall’altra abbiamo un Valhalla dorato e massimalista, con tratti stroboscopici e color arcobaleno. C’è poco nel mezzo, non c’è un compromesso ma solo due cose montate insieme senza fluidità. Un altro esempio può essere la mega-battaglia/climax di Capitan America: Civil War (2016) in cui lo scontro viene consumato in uno spazio aperto pallido, industriale e cinereo nel quale i colori delle tute degli eroi non riempie lo schermo, bensì svuota l’inquadratura della sua profondità cromatica tramutando ogni eroe in una piccola o grande miniatura fuori posto di ciò che l’eroe stesso simboleggia. Certo, Doctor Strange (2016) è riuscito, almeno parzialmente, a esplicitare la natura psichedelica dei fumetti originali grazie a degli effetti visivi non da poco, ma non trasportando pienamente in una logica narrativo-visiva davvero vicina ai fumetti. Nel 2014, il primo film di Guardiani della galassia fu un vero spartiacque sia tra gli appassionati di cinema sia tra quelli di fumetti: un film diverso dal film medio della Marvel, che riprende eroi di fumetti del passato meno celebri mischiandoli con eroi di fumetti del presente in una stessa logica, una vera e propria “space-opera” condita di humor più del solito. Per alcuni fan dei fumetti, questo film è stato il canto del cigno del MCU, definendolo (parafrasando e mettendo insieme opinioni sentite sia da amici sia da esperti del settore) una commercializzazione prevalentemente comica, che non prende particolarmente sul serio la drammatica figura dell’eroe né le sue derive né le sue originalità, e che dunque esplicita la necessità commerciale della Disney. Per molti altri invece la reazione è stata l’opposta: nonostante sia prevedibile per i produttori che un film del genere possa avere un successo commerciale stratosferico (molto difficile il contrario), la decisione di affidare a James Gunn la sceneggiatura e la regia di un progetto così rischioso ha portato a rendere il film ancor più nostalgico, divertente e fuori dagli schemi. Gunn, infatti, noto principalmente per aver lavorato con la casa di produzione di film autodefinitosi ‘trash’ Troma scrivendo il cult Tromeo e Giulietta (1996) e per aver scritto i primi due film live action (orrendi) di Scooby Doo, è una figura assolutamente goliardica, innamorato degli anni ’80, provocatorio in maniera leggera ma spesso politicamente esplicita. Il primo Guardiani della Galassia ha quindi messo in primo piano una gang di 5 protagonisti, presentati uno per uno, immediatamente destinati a diventare cult: l’umano Peter Quill detto “Starlord”, criminale rapito dal centauriano Yondu (Michael Rooker) da bambino dopo la morte della madre, interpretato da Chris Pratt; l’alieno Drax, a cui hanno ucciso moglie e figlia, che raramente capisce pienamente le persone a livello dialogico razionale, interpretato dal wrestler Dave Bautista; la zen-whoberiana Gamora, sorella di cresciuta come una figlia dal temibile Thanos insieme alla lufomoide Nebula (la bellissima Karen Gillan, nota per aver recitato il ruolo di Amelia Pond nelle stagioni 5-6-7 della nuova serie di Doctor Who), interpretata da Zoe Saldana; e poi Rocket e Groot, un procione parlante geneticamente modificato e un albero umanoide che riesce a dire solo «Io sono Groot» (ma tutti capiscono cosa dice), doppiati rispettivamente da Bradley Cooper e da (scelta geniale) Vin Diesel. Mentre nei film degli Avengers la storia è dannatamente seria e ogni tanto ci sono spunti comici, anche notevoli come Hulk che fracassa di botte il “dio fragile” Loki nel primo film del 2012, in Guardiani della galassia sembrava essere il contrario: in questi pianeti cosparsi di CGI incredibile, di nomi assurdi per le razze aliene e di procioni che chiamano i poliziotti “fascisti”, tutto è potenzialmente comico – al massimo spunta ogni tanto il dramma, spesso da Gamora, sicuramente il personaggio “meno divertente” del quintetto ma anche per questo probabilmente il più forte fisicamente. Pur introducendo nel MCU un sacco di personaggi, tra i quali il necessario cameo di Spike Lee, e avendo molteplici climax narrativi e stilistici, il film, comunque ottimo, non era esente da difetti: molti l’hanno trovato noioso, o un tentativo troppo esplicito di fare un film Marvel diverso dai soliti film Marvel, o troppo nostalgico, o (e questo è quasi sicuro) troppo strascicato nei momenti d’azione, che raramente prendono completamente. Inoltre, la sensazione di grigiore privo di profondità che si ha spesso con il MCU, pur diminuita grazie all’eccesso di effetti speciali, non scompare.
Con il solo primo trailer di Guardiani della Galassia, Vol. 2 si è giunti alla scoperta che la Marvel (o James Gunn o chi per loro) ha trovato una soluzione, forse non da applicare sempre in futuro, a questo indubbio problema: la color correction. In un’epoca in cui il color grading ha ormai conquistato il cinema, da Fratello dove sei? (2000) a Mad Max: Fury Road (2015), può sembrare in effetti quasi incredibile che una casa di produzione così importante si sia rifiutata sistematicamente di utilizzare tale tecnica per ravvivare le sue immagini, migliorarle, renderle più vive, più intense, meno vere e dunque più spettacolari. Guardiani della Galassia, Vol. 2 è dunque un film pienamente moderno, almeno nella logica (vecchia?) della Marvel, anche perché è stato il primo film girato con la Red Weapon 8K; e si nota incredibilmente, nel moltiplicarsi di colori e forme e nella grandiosità degli effetti speciali – su tutti il pianeta di Ego, descritto dal regista come “il più grande effetto speciale sinora, non c’è nulla di simile”, esplicitando che ci sono più di un trilione di forme poligonali costruite in digitale. James Gunn, discutendo animatamente con se stesso e con la produzione su cosa inserire e cosa no nel film, aveva comunque dei punti fissi nei personaggi: la figura del misterioso padre di Starlord e la sua rivelazione, che si sarebbe discostata dai fumetti, l’approfondimento di Nebula e di Yondu, l’alieno che ha rapito Starlord da bambino, e l’inserimento di un nuovo personaggio chiamato Mantis. Gunn sfrutta tutti questi personaggi sia per motivi comici sia per motivi drammatici, costruendo una vera e propria commedia dai ritmi fantascientifici che parte quasi in medias res: dopo un breve flashback con protagonista il padre di Starlord, Ego, interpretato da Kurt Russell, arriva un forsennato e ipercinetico piano sequenza che segue Groot (divenuto bambino dopo lo pseudo-sacrificio alla fine del primo film) che balla mentre gli altri quattro Guardiani combattono con un assurdo mostro sospeso a metà tra i Vermi di Dune, il Sarlacc di Il ritorno dello Jedi e un Kraken. E poi giunge la sottotrama dei Sovereign, alieni umanoidi dalla pelle dorata che si riproducono artificialmente, e la loro interazione con i Guardiani si esprime attraverso ritmi prevalentemente umoristici, rendendo sottili e leggeri anche i più ingombranti indizi di un vero inizio di una trama. Ciò, che faceva parte anche della grandezza del primo film, qua assume tuttavia un ancor più esplicito pro: la commedia fa proseguire la narrazione quanto il dramma, ma tanto nel dramma quanto nella commedia riesce a esserci un qualche pathos, una qualche discussione/descrizione del rapporto tra i personaggi, e soprattutto una qualche componente fiabesca. E non solo: non è neanche una storia che procede a prescindere dai personaggi, è una storia che procede grazie ai personaggi, costruendosi via via attorno a essi, cosa che forse nel primo era resa meno bene a causa del limite della necessaria presentazione di ogni protagonista, uno a uno – e, comunque, cosa rara in un film supereroistico. Poi l’approfondimento dei personaggi si risolva in una morale, semplice e ormai dogmatica nei film americani, sulla famiglia e sui rapporti interpersonali, con la necessità drammaturgica di rinnegare la figura paterna e di ritrovarla altrove, attraverso una consapevolezza del “nemico” che rende l’antagonista sempre più profondo e geniale nel suo contesto; ma non importa se parte di questa morale è solo l’ennesima ripetizione di un prototipo, perché il film è fatto con sincerità e con ricerca nell’immagine e nella possibilità di profondità (di campo e di contenuto). C’è il rapporto tra Starlord e il padre e Yondu, quello tra Gamora e Nebula, quello tra Drax e Mantis ma anche tra Drax e il ricordo della figlia e della moglie, e poi il rapporto tra Groot e Rocket e tutti gli altri, in particolare Yondu, personaggio-manifesto del film.
James Gunn poi ha dei riferimenti filmici e trasversali notevoli che traspaiono da ogni minima cellula che compone il film: da una citazione esplicita e tamarra a Intrigo Internazionale (1959) di Hitchcock a una frase che sembra un riferimento palese a Kamina dell’anime mecha Gurren Lagann, Gunn ha la capacità di creare immagini memorabili nella CG dando un’atmosfera davvero senza tempo, riuscendo perfettamente a integrarsi nel MCU ma anche a creare paragoni appunto con i cartoni animati giapponesi, con Star Wars e più in generale con i film di culto della fantascienza anni ’80. Una colonna sonora di classe basata sul recupero di classici dimenticati avvolge completamente scene d’azione, scene romantiche e scene umoristiche in egual misura e con eguale armonia. Pure un antagonista secondario crudelissimo come Taserface riesce a diventare un notevole riferimento comico, tra una gag e l’altra, nonostante i suoi massacri e la sua violenza. La noia percepibile nell’azione del film precedente è qui completamente annullata da un’aumentata capacità nel gestirne i ritmi, che non lascia mai un attimo di noia nonostante svariati momenti di dialogo, silenzio, spiegazione. I guardiani della galassia Vol. 2 è un roboante instant-cult del cinema ad alto budget, un cinecomic cinefilo assurdo e quasi autoparodistico che ritorna alla muscolarità del cinema action con wrestler, icone anni ’80 e Sylvester Stallone (in questo film presente in un cameo, ma nel Vol.3 sarà importante); è un film-outsider emotivamente compattissimo anche nei suoi punti più drammatici, e un’esplicitazione perfetta delle potenzialità fotografiche e visive del genere, attraverso effetti allucinogeni, colori variegati e un citazionismo esplicito che mai pare davvero irritante, che passa da Cheers a David Hasselhoff passando per Pac-Man. Una cosa è sicura, ed è che pur con i suoi inevitabili difetti il MCU ha dalla sua parte coerenza creativa e capacità di far vivere, sia con ironia sia con epicità drammatica. Nonostante non funzioni sempre, è una formula più efficace di quella della DC, che forse, Nolan a parte, negli ultimi tempi non ha fatto altro che umiliarsi con il proprio prendersi troppo sul serio, trasformando Superman in un neo-Cristo incompreso e Joker in una disperata e idiota maschera pseudo-emo/goth. E I guardiani della galassia, Vol. 2, “scritto e diretto da James Gunn”, dimostra anche che il discorso anti-cinecomic proposto da Iñárritu in Birdman o (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza) (2014) è già superato, datato e inutile. Perché questi film possono avere un’epica, uno sguardo, una specie di genialità drammatica e soprattutto un cuore. Tra le note di Father and son di Cat Stevens, giunge a una perfetta e commovente conclusione (prima delle succitate 5 scene tra i titoli di coda che smorzano il tono tra sketch e anticipazioni del prossimo film) un film che sicuramente verrà ricordato come uno dei più belli della Marvel e come uno dei più intelligenti, onesti e divertenti film all’interno dell’intero genere – un genere sempre più difficile da valutare, in continuo cambiamento.
Nicola Settis